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BIBLIOGRAFIA
OPERE DI
MATTEO RICCI
- a cura di Alfredo
Maulo
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Abbreviazioni
bibliografiche |
Tacchi
Venturi =
Opere
storiche del P. Matteo Ricci S.I., edite a cura del Comitato
per le onoranze nazionali con prolegomeni note e tavole di P.
Pietro Tacchi Venturi S.I., 2 voll;
I: I
Commentarj della Cina, dall’autografo di Matteo Ricci,
II:
Le lettere dalla Cina, 1580-1610, con appendice di
documenti inediti,
Macerata, stab. tip.
F. Giorgetti, 1911-1913. |
Fonti
Ricciane =
Fonti
Ricciane: documenti originali concernenti Matteo Ricci e la
storia delle prime relazioni tra l’Europa e la Cina
(1579-1615), edite e commentate da Pasquale M. D’Elia,
sotto il patrocinio della Reale Accademia d’Italia
(Edizione nazionale delle opere edite e inedite di Matteo Ricci)
3 voll.;
I:
Storia dell’introduzione del Cristianesimo in Cina: da
Macao a Nanciam (1582-1597), libri 1-3;
II:
Storia dell’introduzione del Cristianesimo in Cina: da
Nanciam a Pechino (1597-1611), libri 4-5;
III:
Appendici e indici,
Roma,
La libreria dello Stato, 1942-1949.
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Della
entrata… =
Ricci
Matteo, Della Entrata della Compagnia di Giesù e
Christianità nella Cina,
edizione
realizzata sotto la direzione di P. Corradini, a cura di M. Del
Gatto, prefazione di F. Mignini, Macerata, Quodlibet, 2000.
|
Lettere
=
Ricci
Matteo, Lettere (1580-1609),
edizione
realizzata sotto la direzione di P. Corradini, a cura di F.
D’Arelli, prefazione di F. Mignini, con un saggio di S.
Bozzola, Macerata, Quodlibet, 2001. |
Tianzhu
shilu (Vera esposizione del Signore del Cielo),
Zhaoqing 1584.
Primo libro
occidentale pubblicato in Cina, è anche il primo tentativo,
piuttosto impacciato, di spiegare ai Cinesi i principi fondamentali
del cristianesimo nella loro lingua. Chiamato impropriamente
‘Catechismo’ dallo stesso Ricci, era piuttosto un
discorso apologetico del Cristianesimo che, senza ancora arrivare a
toccare i misteri della fede, voleva aprire la breccia alle
conversioni. Composto sotto forma di “dialogo tra un gentile e
un padre d’Europa”, oltre all’esposizione dei
fondamenti del Cristianesimo, dava anche spazio alla critica delle
“sette principali e … molti costumi e peccati della
Cina” (Lettere, p. 98). Vi compariva, per la prima
volta, la traslitterazione del nome di Gesù. Ritenuto ben
presto insufficiente ed inadatto, Tianzhu Shilu verrà
sostituito, dopo nove anni, da Tianzhu shiyi, lungamente
meditato e scritto dal solo Ricci, opera notevole che avrà
ben altro impatto sugli ambienti culturali e religiosi della Cina e
dell’Asia orientale.
Tianzhu
Shilu viene attribuito solitamente al padre Michele Ruggieri, in
quanto desunto da un suo precedente scritto in latino. Certo è
che, per questa ed alcune altre successive redazioni in cinese,
fatte prima che il Ricci raggiungesse la sicurezza nella lingua, fu
necessario il ricorso all’aiuto di un letterato locale. Ricci,
per quanto sempre attento a rivendicare tutto e solo al comune
lavoro missionario, lascia chiaramente intendere che la paternità
dell’opera è al plurale: “..accomodorno i Padri
un Cathechismo…” (Della Entrata … lib.
II, cap. IV, p. 137). E dobbiamo credergli, visto che i Padri, nel
1584, altri non erano che lui e Ruggieri, il quale, pur avendo alle
spalle qualche anno di studio in più, aveva capacità
di penetrare quella lingua e quella cultura ben inferiori al suo
compagno di missione. Ricci stesso inviò un esemplare di
Tianzhu shilu a Roma, stampato “in lingua molto
elegante”. Una traduzione latina dal cinese (Catechismi
sinici paraphrasis. Vera ac brevis divinarum rerum expositio) si
conserva presso la Bibl. Nazionale di Roma. Qui i due interlocutori
del dialogo sono un ethnicus ed un sacerdos christianus.
Presumibilmente curata dallo stesso padre Ruggieri, tornato
definitivamente in Italia nel 1590, questa versione latina è
integralmente pubblicata in Tacchi Venturi, II, pp. 498-540.
Zuchuan
Tianzhu shijie (Dieci Comandamenti del Signore del Cielo
tramandati dagli antenati),
Zhaoqing
1584.
Traduzione
cinese del Decalogo o Dieci comandamenti, stampati
-precisa il Ricci- “per molti che gli chiedevano e dicevano
volergli osservare per vederli tanto conformi alla ragione e legge
naturale” (Della entrata…, lib. II, cap. IV, p.
135). La stampa venne fatta “di per sé” dopo
quelle del Pater noster, dell’Ave Maria e del
Credo, diffusi in versioni ancora comprensibilmente poco
accurate e fogli sparsi. Sempre e tutti lavori di Ricci e Ruggieri
con la collaborazione dell’interprete cinese.
Tutte
queste versioni, brevi ma problematiche per il trasferimento di
termini e concetti del tutto estranei al cinese, vennero
continuamente ritoccate fino al punto che, in capo a pochi anni, ne
circolavano versioni diverse e discordanti. E al p. Matteo, l’unico
che poteva farlo, sarà assegnato il compito di ovviare alla
confusione. Solo nel 1605, ormai padrone della lingua cinese, Ricci,
dopo aver rivisto ed integrato il tutto con altri materiali
catechetici, stamperà Tianzhu jiaoyao, che andrà
a sostituire ogni altro manuale o foglio di preghiera in uso nelle
allora quattro missioni della Cina.
La
traduzione italiana del Decalogo con fotoriproduzione del
testo cinese è in Fonti ricciane, I, p. 194 n. 3 e
tav. IX. Si veda anche P. M. D’Elia, Il domma cattolico
integralmente presentato da Matteo Ricci ai letterati della Cina,
secondo un documento cinese inedito di 350 anni fa, in “Civiltà
Cattolica”, II, (1935), pp. 35-53.
Il
Mappamondo,
Zhaoqing
1584, Nanchino 1600, Pechino 1602, 1603, 1608, 1609.
E’ il
famoso Mappamondo cinese di Ricci, che finirà per
avere diffusione in tutto l’estremo oriente. Scrivendone al
Generale della Compagnia di Gesù il 20 ottobre 1585, un anno
dopo la prima edizione, l’autore ricorda di avergliene già
inviata una copia e avverte che essa, “tiene alcuni errori, ma
per loro [i Cinesi] è la più vera cosa che tenghino in
questa materia”. Aggiunge di aver costruito anche due o tre
globi terrestri “pure in lingua e lettera loro”, e che
sta pensando ad un globo celeste, ma di non sapere ancora bene come
farlo “per non avere qui nessun libro di che mi agiuti”
(Lettere, p. 103). Nella lettera al p. Giulio Fuligatti di un
mese dopo, lamenta la stessa mancaza di libri dicendo di avere con
sé niente altro che un Clavio ed un Piccolomini (Lettere,
p.116). Dal Clavio (In Sphaeram Ioannis de Sacro Bosco
commentarius, Romae 1570) e dal Piccolomini (De la sfera del
mondo, Venezia 1540) che aveva a Zhaoqing, dunque, ma
soprattutto da una memoria di ferro, scaturisce la prima mappa del
Ricci. Che è anche la prima raffigurazione del mondo
disegnato come una sfera circolare, stampata e pubblicata in Cina.
Difformemente dalla concezione eurocentrica delle mappe geografiche
europeee, la sua aveva la Cina e l’Asia orientale nella
sezione centrale. Iniziato come traduzione cinese del mappamondo
europeo dell’epoca, l’opera di Ricci ebbe subito
successo: suscitava grande curiosità e stupore che la Cina
non fosse “la maggior parte del mondo”, come anche i
dotti di lì credevano. “Molti letterati -racconta
Ricci- credettero e si lamentorno de’ nostri, dicendo che
avevano ingranditi a’ suoi regni forestieri e fatta piccola la
Cina” (Della entrata…, lib.V, cap.XVII, p.552).
Ispirandolo alle carte di Mercatore, Ortelius e Plancius, il p.
Matteo non finì in pratica mai di perfezionare il suo
Mappamondo, di correggerlo, di integrarlo anche sulla base di
informazioni e cartografie cinesi, di aumentarne le dimensioni.
Sull’onda del successo e per far fronte alle tante richieste,
ne curò altre 5 edizioni. Delle prime, meno ingombranti delle
successive, Ricci inviò diverse copie a Roma, ma si guardò
bene dal farne arrivare anche alla corte imperiale, per paura
che lì si pensasse -spiega- “che i nostri per
disprezzo della Cina l’avessero descritta in quella mappa così
piccola”. Sarà però lo stesso imperatore Wanli
(1573-1620) a farne richiesta attraverso i suoi eunuchi. “Di
dove si scorge il buon giudicio di questo re, che per se stesso
intese essere la descrittione di questo mappamondo fatta con sue
misure, e nessuna ingiuria essere stata fatta alla sua Cina”
(Della entrata…, lib.IV, cap. XVII, p. 552). Con
l’edizione per l’imperatore veniva il riconoscimento più
alto: l’ufficializzazione dell’opera in Cina e, dalla
Cina, in tutto l’estremo oriente.
Il
Mappamondo fu sicuramente uno strumento di penetrazione
culturale e religiosa, ma, insieme, un grande dono ai Cinesi, i
quali, da Ricci, capirono l’insensatezza della loro
tradizionale rappresentazione geografica, dove “la terra è
piana e quadrata” e la Cina quasi tutto il mondo conosciuto.
Ecco,
in ordine cronologico, le sei edizioni:
Yudi
shanhai quantu (Carta geografica completa dei monti e dei mari),
Zhaoqing 1584.
Sollecitato
da Wang Pan, allora governatore di Zhaoqing, che ne curò la
stampa, era in un unico quadro. Era “una mappa al nostro
modo, ma le lettere et ore et nomi al suo modo” (Lettere,
p. 92). Non ci è pervenuto, ma sappiamo che era privo di
didascalie. Aveva al centro la Cina, conteneva l’Asia,
l’Europa senza nessun nome, le Americhe (quasi sconosciute in
Cina), la Libia (Africa), la misteriosa “Magellanica”
nella zona australe, gli oceani, i mari principali. Per quanto
rudimentale, era pur sempre una grossa novità in Cina, dove
la cartografia, da secoli, si limitava a rappresentare “il
regno di mezzo” contornato da paesi di confine molto
vagamente delineati o descritti (Della entrata …, p.
144n).
Shanhai
yudi quantu (Carta geografica completa dei monti e e dei mari),
Nanchino 1600.
Tranne
che per l’inversione dei due caratteri, il titolo è lo
stesso della prima edizione. Venne realizzato su richiesta di Wu
Zuohai, “Mandarino assai grande”, che volle inciderlo
su “tavole pubbliche” da mettere a disposizione di
chiunque volesse stamparlo. “Per questo il Padre ne fece una
forma maggiore, et emendò molti errori …, aggiungendo
molte cose di nuovo, annotazioni e dichiarazione con le quali
Uzohai restò molto contento, e subito lo fece intagliare da
intagliatori assai excellenti, facendogli lui un proemio assai
elegante e dotto”. La stampa, così migliorata, ebbe
buona diffusione in Cina, venne inoltre riprodotta in una
pubblicazione di Guo Qingluo, “uno dei maggiori letterati
della Cina”, all’epoca viceré del Guizhou, venne
portata dai gesuiti a Macao e in Giappone e là ancora
riprodotta (Della entrata …, lib. IV, cap. V, p.
306).
Kunyu
wanguo quantu (Carta completa delle miriadi di paesi sulla terra),
Pechino 1602.
E’
l’edizione xilografata in sei quadri “più alti
della statura di un uomo” e realizzata in collaborazione con
Li Zizhao (1565-1630), letterato ed anche lui cartografo, prima di
essere battezzato con il nome di Leone. Venne tirata a “molte
migliaia”, spesso “pinti con varij colori” dagli
acquirenti. Era “in forma molto grande di tre braccia di
alto e sei di lungo”, con l’aggiunta di “molti
regni, ma anco molte postille delle cose notabili di varij regni e
luoghi, e più ampia dichiarazione di questa opera, et altre
di matematica, del sole e delle stelle ” (Della Entrata…,
lib.IV, cap. XV, p.373), il tutto abbellito da disegni di animali
marini e terrestri. Di questa edizione Ricci riferisce che uscì
una doppia versione, perché gli stampatori, mentre
incidevano le matrici di legno per Li Zizhao (lavoro di durata più
che annuale), ne incisero di nascosto altrettante per loro. Questa
copia clandestina ebbe la ventura di fracassarsi nel crollo della
casa in cui era custodita, nel corso della catastrofica inondazione
di Pechino del 31 agosto 1607; ma nel frattempo, in quattro anni,
gli stampatori avevano fatto i loro lauti guadagni con i mappamondi
dello straniero, “vendendone moltissimi e ben cari”
(Della entrata…, lib. V, cap. XVII, p. 552). Di
questa edizione esistono alcuni esemplari sparsi per il mondo,
provenienti sia dalle matrici di Li Zizhao che da quelle
clandestine degli stampatori.
Liangyi
xuanlan tu (misteriosa mappa visiva delle due forme), Pechino 1603.
Fu
voluta da “un Cristiano” (identificato con Li Yn Shih
in Fonti Ricciane, II, p.173 n.3), che la fece stampare
“con agiuto de’ nostri”, anche perché
-ricorda Ricci- la terza edizione, pur nella doppia versione
autentica e clandestina, non era stata sufficiente a soddisfare
l’enorme e imprevista domanda. Questa quarta edizione venne
stampata in otto quadri “assai maggiori” ed era una
riproposta di quella precedente con poche varianti di mano
dell’autore e nuove prefazioni. Le due forme del
titolo sono ovviamente il cielo e la terra. Anche di questa quarta
edizione dovettero circolare sicuramente molte copie, se è
vero -come precisa sempre Ricci- che le matrici in legno degli otto
quadri furono vendute agli stampatori, “e fecero già
tre stampe in tavole” (Della Entrata…lib. IV,
cap. XV, p.374).
E’
l’edizione imperiale del 1608, di cui Ricci racconta
diffusamente (Della entrata..., lib.V, cap.XVII, pp.
551-553). Venne realizzata per l’imperatore Wanli (1573-1620),
all’epoca trentacinquenne, che ne voleva dodici esemplari in
seta per sé e “pare per dare al principe et altri suoi
parenti per poner nelle loro sale”. All’ imperatore
Wanli il mappamondo era stato mostrato da uno degli eunuchi
“a’ quali i Padri ne avevano dati in presente molti”.
Se ne era innamorato e aveva ordinato che si trattasse subito la
cosa con lo straniero che firmava l’opera: Li Madou,
soprannome Xitai. Il quale, insieme al confratello Pantoja, mirando
ad avvicinare l’imperatore per convertirlo, si offrì,
con l’indomito spirito di apostolato scientifico che gli era
abituale, di stamparne un’edizione straordinaria, addirittura
in un solo mese ed a proprie spese. Pensava, il p. Matteo, di
cogliere quella grande occasione “disegnando molte altre cose
che fussero più a proposito della christianità”.
Ma Wanli tagliò corto e fece dire che voleva subito una
ristampa dell’edizione in sei quadri che aveva ammirato (la
terza, quella del 1602 curata da Li Zizhao), senz’altra fatica
o spesa per gli stranieri. “E così -ammette Ricci- si
fece molto di prescia, e ne stamporno poi là dentro quanti ne
volsero”, e senza le cose “a proposito della
christianità”, che i due missionari avrebbero voluto
aggiungervi nella la speranza di incuriosire l’illustre
destinatario. Da fonti cinesi (citate in caratteri ideografici in
Fonti Ricciane, II, p. 474 n.2) sappiamo che, essendo
l’imperiale planisfero assai ingombrante ed issato su
paraventi tanto grandi da riempire una stanza, “il venerando
Ricci”, con l’aiuto di due cristiani, “si rimise
al lavoro con grande energia e fece due piccole carte da sospendere
a destra del trono”.
In
tutta questa storia spicca un’ icastica nota del Ricci: “Non
vi essendo altro rimedio per parlagliene i nostri, stando egli
[l’imperatore Wanli] sì serrato senza conversare con
nessuno, oltre che il vedere il suo regno sì piccolo a
paragone di tanti altri, può essere che abassi alquanto la
sua superbia e si degni più di trattare con altri regni
forastieri”.
L’edizione
del 1609 non consiste in altro che nelle carte dei due emisferi che
il Ricci fece stampare in formato ridotto per la collocazione a
fianco del trono dell’imperatore (v. al p. 5).
Nessun
esemplare ci resta delle due prime edizioni della planisfera (1584 e
1600) né dei globi costruiti dal Ricci. Tuttavia si sa che
la prima edizione venne trasferita su una stele a Suzhou con una
prefazione del governatore di Nanchino, Zhao Kehuai, e riprodotta in
Tushupian, trattazione di carattere enciclopedico di Zhang
Doujin (1527-1608), quest’ultima pubblicata in Fonti
Ricciane (II, tav.VIII). Schemi della mappa del 1600 sono
pubblicati in Qian zao (1604), opera cosmografica di Guo
Qingluo (v. sopra al p. 2), soprannome di Guo Zizhang (1643-1612),
governatore del Guizhu (detto ‘Cuocin’ o ‘Cuocinlun’
da Ricci), di cui non si è trovata finora traccia (ne resta
la sola prefazione in Carrington Goodrich e Chaoying Fang, eds.,
Dictionary of Ming Biography, 1368-1644, New York, Columbia
University Press, 1976, vol. I, pp. 775-77). Altra riproduzione
della mappa del 1600 in Yueling guangyi (juan 1, p. 60) di
Feng Yingjing (1555-1606), che contiene anche la prefazione di Wu
Zuohai (v. sopra al p. 2), riproposta invariata nelle edizioni del
1602-3.
Dell’edizione
del 1602, la terza, curata da Li Zhizao, appassionato di cartografia
e già autore di una Descrittione di tutta la Cina,
amico e collaboratore del Ricci, in sei sezioni, esistono copie
autenticate: Vaticano, Kyoto e Miyagi in Giappone, osservatorio di
Bologna (sole le sezioni 1 e 6), collezione privata Ph. Robinson; ma
anche copie non autenticate, tra cui quella dipinta a mano ed
acquistata da un collezionista anonimo tramite la ‘John.
Howell Books’ di San Francisco nel 1958. Molte le prefazioni a
questa edizione: oltre a quelle di Ricci stesso e di Wu Zuohai,
quelle encomiastiche di Li Zizhao e di altri illustri letterati
cinesi suoi amici. Ristampe tardo-secentesche della terza edizione
sono alla Royal Geographical Society di Londra ed al Museo di Storia
di Pechino.
Della edizione del 1603,
la quarta, trasferita in otto grandi sezioni ma sostanzialmente
identica a quella in sei sezioni del 1602, si conserva almeno una
copia a Shenyang e, che si sappia, un’altra copia in una
collezione privata che nessuno sa o osa indicare. In questa
edizione, le prefazioni sono quasi tutte nuove, compresa quella di
Ricci. Un originale dell’edizione imperiale del 1608 si
conserva a Nanchino.
La moderna
ripresa degli studi sul Mappamondo di Ricci si deve tutta al
sinologo gesuita Pasquale M. D’Elia che, a partire dal 1935,
lo studiò a fondo e ne riprodusse un esemplare del 1602 in
fac-simile (P.M. D’Elia, Il Mappamondo cinese del Padre
Matteo Ricci (terza edizione –Pechino 1602) conservato presso
la Biblioteca Vaticana,Cod. Barb. Orien. 150, Città del
Vaticano, 1938). Del D’Elia sono debitori tutti quelli che si
sono occupati dell’argomento dopo di lui. Si attendono nuove
scoperte sull’opera cartografica del Ricci e nuovi documenti
soprattutto dall’Asia: l’enorme diffusione che ebbero in
Asia la terza e quarta edizione del Mappamondo già ai
suoi tempi, lascia supporre che gli esemplari ancora esistenti siano
di più di quelli attualmente conosciuti. E’ di questi
giorni (luglio 2002) la notizia di prossime mostre sulla cartografia
ricciana a Pechino, a Macerata, a Roma.
Dizionari:
Dizionario
portoghese-cinese,
Zhaoqing
1583-1588.
E’ un
cimelio della sinologia -come giustamente lo definisce il D’Elia-
ed il primo dizionario cinese-europeo al mondo. E’ frutto
dell’ultima collaborazione con il p. Michele Ruggieri che, nel
1588, s’imbarcò per l’Europa al fine di
sollecitare un’ambasceria papale in Cina e finì per
restare per sempre in Italia. Il dizionario, lavoro in fieri
e per uso interno, resterà incompleto e manoscritto.
Il dizionario venne ritrovato dal D’Elia, nel 1934,
nell’Archivio Romano della Compagnia di Gesù preceduto
da carte di vario tipo (un dialogo-prontuario di conversazione in
cinese solo traslitterato di mano del Ruggieri, conversazioni
catechetiche del Ricci con letterati cinesi, note di cosmografia,
annotazioni volanti su gruppi di ideogrammi) e seguito da altre
pagine miscellanee E’ diviso in tre colonne (voci portoghesi,
traslitterazione italiana, caratteri cinesi). Se ne ha una ristampa
critica in P. M. D’Elia, Il primo dizionario
europeo-cinese e la fonetizzazione italiana del cinese, in “Atti
del XIX congresso internazionale degli orientalisti”, Roma
1938, pp. 172-78. Una pagina è fotoriprodotta in Fonti
ricciane p. 32, tav. V. Una recente edizione del dizionario di
Ricci e Ruggeri è stata curata da J.W. Witek (Biblioteca
nazionale di Lisbona, 2001).
Vocabularium
sinicum, ordine alphabetico europeorum more concinnatum et per
accentus suos digestum,
dal
1598 in avanti.
Si tratta di
“un bello Vocabulario” cui Ricci accenna narrando del
faticoso viaggio di ritorno da Pechino a Nanchino alla fine del 1598
(Della entrata…, lib.IV, cap.III, pp. 287-288). Fu
proprio durante questo lungo viaggio che lui vi mise mano insieme al
p. Lazzaro Cattaneo, musicista che aveva buon orecchio per
distinguere toni ed accenti, ed al fratello Bastiano, “che
sapeva molto bene la lingua della Cina”. Nel vocabolario si
elencavano le voci secondo l’ordine alfabetico europeo,
distinguendo “cinque varietà de accenti et un modo di
haspiratione”. La necessità, infatti, era quella di
facilitare l’apprendimento del cinese e soprattutto di
uniformarne l’uso scritto tra i missionari europei. Vennero
fatti circolare, “questo et altri vocaburari che dipoi si
fecero”, per evitare che “scrivesse ognuno come gli
pareva, al modo che sin’ora si faceva con grande confusione”.
L’altro motivo della circolazione -aggiunge Ricci- era quello
di dare spazio ad ulteriori apporti e collaborazioni alla stessa
impresa, “con qual modo uno si poté servire de’
scritti et annotazione de gli altri con molto frutto et utilità
di questa scientia fra’ nostri”.
Del
dizionario con l’indicazione di toni ed metterli tra le carte
del Ricci dopo la sua morte. A maggior ragione se ogni missionario
era autorizzato ad aggiungervi di suo.
Breve
del papa Sisto V all’imperatore della Cina,
Zhaoqing
1588.
Fu approntato
da Ricci “ con un grave letterato di Sciaochino …
acciocché fusse tutto secondo lo stile della Cina” e
venne portato in Italia da Ruggieri (Della entrata..., lib.
II, cap. XI, pp. 170-171). E’ il testo cinese della lettera
che il papa -secondo le intenzioni dei missionari e del loro
superiore Alessandro Valignano- avrebbe dovuto inviare
all’imperatore della Cina Wanli. Lo scopo era quello di
ottenere ai gesuiti il permesso di rimanere in Cina e predicarvi
liberamente il messaggio cristiano di salvezza, che il papa
-rivolgendosi al sovrano- si rammaricava non fosse ancora conosciuto
in quel grande e nobile regno. Il Breve annunciava una
prossima ambasceria pontificia in Cina e faceva i nomi di “Matteo
e Antonio” (Ricci e Almeyda), già residenti in quel
regno, come quelli che si sarebbero recati nel frattempo alla corte
di Pechino per portare i saluti e i doni del papa all’imperatore.
Il che probabilmente voleva dire, fuori dal cauto codice
diplomatico, che i due avrebbero dovuto sondare il terreno e, al
momento giusto, spianare la strada ai legati.
Purtroppo, però, a
causa della morte di Sisto V, Gregorio XIV ed Innocenzo IX nell’arco
di un solo anno, ma forse anche per altre ragioni di opportunità,
della lettera e dell’ambasceria non si fece nulla. Ricci
sarebbe entrato nel palazzo imperiale solo nel 1601 e in tutt’altra
circostanza. Il p. Ruggieri (1543-1607), che al suo arrivo in Europa
si era recato da Filippo II di Spagna a chiedere interessamento per
quell’ambasceria da fare in Cina, non ripartirà più
per l’oriente e finirà i sui giorni, tre anni prima di
Ricci, nel silenzio del collegio dei gesuiti di Salerno.
Il
testo cinese del Breve venne pubblicato in fac-simile nel
1901 da H. Cordier (Bibliographie des ouvrages publiés en
Chine par les Européens au XVII et au XVIII siècle,
Paris, 1901, p. 67) e successivamente riproposto nel 1913 insieme ad
una versione italiana in Tacchi Venturi, II, pp. 493-495. Vi
si leggono i nomi di “quattro sacerdoti di eccellenti doti
forniti” che avrebbero dovuto far parte dell’ambasceria
pontificia in Cina (Pietro, Paolo, Lino e Mattia, non meglio
identificati). Ovviamente la lettera approntata dal Ricci non può
essere stata stampata in Cina oltre un anno prima della prevista
approvazione pontificia, per di più con i nomi dei legati che
né il Ricci né i gesuiti avevano autorità di
scegliere. Ricci, infatti, dice espressamente di averla preparata
“per mandarla a Roma e venire di là scritta con molta
galanteria e ornamento” (Della entrata…, lib.
II, cap. XI, p. 170). Si deve fondatamente supporre, quindi, che il
testo approntato da Ricci e dal “grave letterato” cinese
sia stato inciso su matrice, in Europa, dallo stesso Ruggieri: con
l’esperienza di stampa in casa acquisita in Cina, doveva
saperlo fare, e nessun altro avrebbe potuto far di meglio. Questa
ipotesi è suffragata dal fatto che la tavola per la stampa
del documento si conserva alla Bibl. Nazionale di Parigi e, a quanto
sembra, è prodotto di mano non esperta ( su questo argomento
e sui legati pontifici cfr. le ipotesi di Tacchi Venturi, II,
pp. 493-495).
Calendario
gregoriano,
1589.
Versione cinese del
calendario romano riformato da papa Gregorio XIII nel 1582, riforma
cui aveva contribuito anche il matematico Cristoforo Clavio, quando
il Ricci era già in oriente. Verrà pubblicata dai
gesuiti della Cina solo dopo la sua morte. Il calendario cristiano
venne “accomodato” dal Ricci nei 24 periodi di circa 15
giorni dell’anno solare cinese, “di modo che possono per
se stessi i cristiani sapere tutte le feste dell’anno mobili e
fisse, et anco le loro lune e tempi dell’anno”. Lo fece
talmente bene che se ne meravigliarono “sino ai gentili”.
E quando alcuni di loro gli chiesero di poterlo stampare, Ricci si
rifiutò “per esser cosa di molta suspicione nella Cina
far nuovi calendari” e riservata solo all’imperatore.
Ma qualche anno dopo, per la riforma del calendario cinese, il
ministro dei Riti penserà proprio a lui, e quando si farà
veramente, dopo la sua morte, saranno alcuni misionari europei a
collaborarvi. Lui, comunque, si prese il tempo per studiare la cosa
coll’aiuto dei consigli e delle pubblicazioni del suo maestro
di una volta, il Clavio appunto, a lui periodicamente inviati.
Descrittione
della Cina,
circa
1590.
Nella lettera
del 20 ottobre 1585 indirizzata al Generale Acquaviva, Ricci dice
di voler inviargli “una Descrittione di tutta la Cina”,
ma non prima di aver conosciuto con esattezza la posizione di
Pechino, “che è il luogo più principale dove sta
il re”, posizione -dice- che non può rilevare dalle
tavole cinesi “scritte molto diligentemente, ma senza gradi”
(Lettere, p. 103) Undici anni dopo, scrivendo al p. Giulio
Fuligatti, ricorda che “la Descrittione della Cina fu
mandata all’Europa per molte vie, ma con assai errori”,
errori che egli sperava, con l’aiuto di Dio, di poter
correggere in futuro (Lettere, p. 326). Non è dato
sapere che cosa sia concretamente la Descrittione, in quanto
non se ne conosce ancora alcun esemplare. Forse coincide con le
cosiddette “carte geografiche di Ruggieri” conservate
presso l’Archivio di Stato di Roma.
Versione
latina dei ‘quattro libri’,
Shaozhou
1594.
Traduzione e
commento in latino dei libri fondamentali della dottrina confuciana.
Provenienti da un’ antichissima tradizione successivamente
rivista e ridotta in quattro tomi, sono “libri di cose morali
non per via di scientia, -dice Ricci- ma di sententie assai acute e
buone”, abbastanza vicine – sempre secondo lui - a
quelle dei saggi pagani dell’occidente, come Seneca.
Comprendono il Daxue (Grande conoscenza), Lunyu
(Dialoghi o Analetti) di Confucio, Zhongyong (Giusto mezzo) e
Mengzi (Mencio). Come estensione -nota ancora Ricci- non
superano le epistole Ad familiares di Cicerone, “ma gli
commentarij e glosse, e commentarij de’ commentarij et altre
expositioni e discorsi sopra essi sono già infiniti”
(Lettere, p. 349). Pubblicati per la prima volta da Zhu Xi
nel 1190 con il titolo di Sizi (Quattro Maestri), furono
meglio noti, a partire dalla Dinastia Yuan (1277-1367), come Sishu
(Quatto Libri). Nel 1313, con la traduzione di Zhu Xi, divennero
materia fondamentale nel terribile sistema cinese degli esami.
La
traduzione dei Quattro libri fu commissionata al Ricci dal
suo superiore in oriente, il visitatore A. Valignano, per
l’istruzione dei missionari di lì, ma anche in
preparazione dell’aggiornamento del ‘Catechismo’
del 1584, che da anni ormai si pensava di sostituire “per non
esser riuscito sì buono come avria d’essere”.
Ricci, che già negli anni 1584-87 si era fatto “dichiarare
da buoni maestri” cinesi i Quattro libri, ne intraprese
la traduzione dopo il 1590. Il lavoro era a buon punto nel dicembre
del 1593 e risultava completato e corredato di un commento (“per
maggior dichiarazione delle cose che nel resto si trattano”)
nel 1594. La traduzione di Ricci risultò molto utile ai
missionari di Cina e Giappone. “Con essa -riferisce l’autore-
intendono i libri con ogni poco agiuto di maestro, e ciascheduno se
la trascrive per sé” (Lettere, p. 364).
Della
traduzione fatta “gli anni addietro”, Ricci diede la
notizia al p. Fabio de’ Fabii nel 1594, aggiungendo: “Può
essere che l’anno che viene lo ponghi in buona forma e mandi
al p. Generale” (Lettere, p. 192). Ma che abbia avuto
il tempo di farlo veramente non è cosa certa. Una traduzione
in latino dei Quattro libri, ma senza commento, conservata
alla Bibl. Nazionale di Roma (Fondo gesuitico 3314) è
probabilmente una copia mutila derivata non si sa per quale via
dall’originale. La traduzione ricciana di Sishu, in
ogni caso, è la prima delle numerose informazioni di fonte
gesuitica sulla filosofia cinese ad arrivare in occidente; tramite
Ricci e confratelli, “la scientia morale” dei Cinesi
suscitò attenzione e interesse in alcuni pensatori europei
del tempo, G. W. Leibniz (1646-1716) in particolare.
Jiaoyou
lun (Trattato sull’amicizia),
Nanjiang
1595.
L’operetta,
detta anche, già a partire dal Ricci, ‘De amicitia’,
è una raccolta di sentenze morali sul tema dell’amicizia
desunte da autori occidentali. Venne composta nel 1595 su invito del
principe imperiale Qian Zhai ed a lui per primo donato. E’
opera del Ricci che ha appena dismesso l’abito disprezzato del
bonzo per vestire quello onorato del letterato. “Più si
fa nella Cina con libri che con parole”, egli scrive spesso in
quegli anni ai confratelli in Europa, dove tutto o quasi era
affidato alla predicazione. Ed infatti, i “detti di
amicizia”, valsero al suo autore l’appellativo di
‘scengen’ (qualcosa come saggio ispirato, santo). Ebbero
diverse ristampe ed un successo tra i letterati cinesi molto
superiore a quello sperato da lui e compagni. I quali, stranieri in
una terra dove c’era “grande suspicione di forestieri”,
dopo le accuse, la diffidenza e gli sgarbi subiti, sentirono di
essere finalmente stimati per uomini “di lettere, d’ingegno,
di virtude”, per saggi che amavano prima di tutto la verità.
Ricci, ringraziandone Dio, mostra di godere molto degli effetti di
quella stima: quando si tratterà di parlerà della vera
fede -fa capire- saranno meglio creduti quelli che hanno fama di non
mentire (Lettere, p. 338).
Jiaoyou
lun è la prima autonoma composizione del Ricci in cinese.
Inviandone, nel 1599, “la dichiarazione in italiano” al
confratello e concittadino Gerolamo Costa, Ricci avverte che essa
“non potrà avere la gratia che tiene la lingua cina,
perché io in tutto mi accomodai a loro, e dove era bisogno,
mutai in alcuna cosa i detti e sententie de’ philosophi nostri
[e] alcune cose presi di nostra casa” (Lettere, p.
363). In quel suo “accomodamento”, nella sua ormai buona
conoscenza, cioè, della cultura cinese, nella interazione con
essa, stavano le ragioni del successo dell’opera. Notevole,
nella stessa lettera al Costa, l’affermazione circa il “nulla
osta” ecclesiastico a questa sua operetta morale: “Io
non la stampo né posso, perché per stampare alcuna
cosa qua bisogna tante licentie de’ nostri, che io non posso
mettermi a niente, e là vogliono rivedere le cose in Cina che
non sanno e non ponno vedere” (Lettere, p. 364). Quelli
“che non sanno e non ponno vedere” sono gli Inquisitori
di Goa, a cui il Ricci sfugge lasciando la stampa delle sue opere
(ovviamente solo quelle di carattere non dottrinale) ad amici e
ammiratori cinesi.
Jiaoyou
lun ebbe in Cina ampia circolazione con le edizioni fatte tra il
1599 ed il 1603, ma se ne fecero anche successivamente. Molto
probabilmente del 1601 è l’edizione curata da Feng
Yingjing (1555-1606), che ne fece anche “un illustre proemio”.
Feng, letterato e funzionario imperiale, grande estimatore del
Ricci, fece stampare il Trattato a tutta insaputa e con
felice sorpresa dell’autore (sull’episodio e sul
personaggio si veda il racconto del Ricci in Della entrata…
lib.IV, cap.XV).
In Italia venne stampata più volte nella seconda metà
dell’ottocento. Edizioni più recenti: Ricci Riccardi
A., Il P. Matteo Ricci della Compagnia di Gesù e la sua
missione in Cina, Firenze 1910. - Gné Yong Lien, Dehergne
J., Le « Traité de l’amitié de
Matthieu Ricci », in « Bulletin de
L’Université l’Aurore », (1947),
Shanghai, pp.571-619. - D’Elia P.M., Il trattato
sull’amicizia. Primo libro scritto in cinese da Matteo Ricci
S.I. Traduzione antica (Ricci) e moderna (D’Elia).
Fonti, introduzione e note, in “Studia Missionalia”,
7 (1952), pp. 449-515.
Xiguo
jifa (Metodo mnemotecnico dei paesi occidentali),
Nanjiang 1596 .
Cultore di
questa materia già negli anni della formazione al Collegio
Romano, dove il metodo mnemonico di studio era stato raccomandato da
S. Ignazio, Ricci aveva inoltre una memoria eccezionale. Questa sua
dote suscitò stupore ed attenzione in Cina, dove il terribile
sistema degli esami per i ruoli della burocrazia imperiale e la
tradizionale formazione aforismatica esigevano grande esercizio
mnemonico. Ricci tentò evidentemente di inserirsi come
maestro occidentale in quella tradizione culturale. Scrisse questo
trattato su sollecitazione del xunfu (sorta di governatore
provinciale) Lu Wan’gai, che gliene fece richiesta “per
il suo figliolo che lo desiderava”. Il metodo di Ricci,
sicuramente non del tutto originale e derivato da autori occidentali
antichi e medievali, proponeva di organizzare la memoria in una
struttura mentale immaginata a forma di palazzo con stanze ed
ambienti per raccogliere ed organizzare le cose da ricordare. Nella
lettera al p. Acquaviva del 1596, l’autore riferisce,
divertito, il commento del governatore Lu Wan’gai dopo la
lettura del trattato: “Questi precetti sono la vera regola
della memoria, ma bisogna aver molto buona memoria per servirsi di
essi” (Lettere, p. 336). Il Metodo, infatti, non
ebbe il successo sperato dall’autore, che si impegnerà
a cercare altre vie per portare i Cinesi alla conversione. Ostico a
quella cultura, Xiguo jifa resterà sconosciuto anche
alla cultura scientifica europea, dove nuove scoperte e nuovi
sistemi di classificazioni stavano avendo la meglio sulle
tradizionali arti della memoria. Del Metodo, probabilmente
diffuso solo manoscritto da Ricci, non si conoscono edizioni prima
di quella postuma del 1625. Interessante la sua recente riproposta
in Europa.
Ed.
recenti: Spence J.D., The Memory Palace of Matteo Ricci, New
York 1984, Pinguin 1985; versione francese: Le Palais de mémoire
de Matteo Ricci, trad. di M.Leroy-Battistelli, Paris, Payot,
1986; versione italiana: Il Palazzo della Memoria di Matteo
Ricci, Milano, Il Saggiatore, 1987. - Lackerner M., Das
Vergessene Gedachtnis. Die jesuitische mnemotechnische Abhandlung
Xiguo jifa. Ubersetzung und Kommentar,
Stuttgart 1986.
Si
yuannxing lun (Trattato sui quattro elementi),
Nanchino 1599 o 1600.
Vi si confuta
l’antichissima e persistente teoria cinese dei cinque elementi
dell’universo (metallo, legno,acqua, fuoco, terra) a tutto
vantaggio della teoria occidentale che ne contava quattro (acqua,
aria, terra e fuoco). Ristampato a Pechino con una prefazione del
letterato Feng Yingjing (v. su di lui anche le voci per il Trattato
sull’amicizia e le Venticinque sentenze), venne poi
“stampato e ristampato in diverse province e molto letto da
tutti”. Passi dell’opera compaiono in didascalie o
postille del Mappamondo cinese.
Il
Trattato sui quattro elementi confluirà nella raccolta
ricciana ma non di mano del Ricci Qiankun tiyi (Spiegazioni
essenziali di Cielo e Terra), pubblicata probabilmente a
Pechino dopo il 1614. Due copie sono alla Bibl. nazionale di Parigi
ed un’altra nella biblioteca dei Padri di Scheut a Siwantze.
Riqiu
dayu diqiu, diqiu dayu yueqiu (Il disco solare è più
grande del globo terrestre e questo è più grande del
disco lunare),
incerta datazione.
E’
un trattatello che contiene sei teoremi sulla luce per spiegare le
eclissi, le prove che il disco solare è più grande del
globo terrestre e che questo è più grande di quello
lunare, ed inoltre un lavoro di Xu Guanqi intitolato Tre
argomenti sulla rotondità della terra. Il tutto ci
pervenuto nella raccolta Qiankun tij (Spiegazioni essenziali di
cielo e terra). La parte riguardante le eclissi compariva sul
Mappamondo del 1602 più o meno negli stessi termini.
Memoriale
al trono,
Pechino 1601.
“Una
campana che per se stessa suonava” e la curiosità
dell’imperatore Wanli di vederla furono la chiave per
l’entrata e la libera residenza dei gesuiti a Pechino, tappa
assolutamente necessaria, per Ricci e compagni, allo sviluppo delle
missioni in Cina. Chiamati dunque a Pechino, i gesuiti furono
ricevuti con le stesse modalità degli ambasciatori stranieri.
Il 25 gennaio 1601, Ricci e Pantoja consegnarono agli eunuchi di
palazzo i loro doni per l’imperatore: un grande orologio
meccanico ed uno piccolo da tavolo che suonavano le ore (“la
campana che per se stessa suonava”), un’immagine piccola
del Salvatore, due della Madonna, un libro di preghiere, una croce
con gemme incastonate, un mappamondo annotato, un clavicembalo.
Il Memoriale
al trono, datato 27 gennaio 1601, é la lettera rituale
diretta all’imperatore con cui Ricci accompagnava i doni,
presentava se stesso, chiedeva udienza e si metteva a disposizione
della corte. Pur facendo dichiarazione di sottomissione e di umiltà,
Ricci ben conosceva le corde da toccare per rendersi gradito ed
instaurare rapporti duraturi con la corte. Chiedendo udienza
all’altissimo principe per potergli mostrare le sue capacità
e competenze, dichiara di aver ricevuto i gradi di dottore in
patria, di essere geografo, cartografo, matematico, astronomo,
esperto di strumenti per l’osservazione del cielo e di orologi
solari, di essere arrivato in oriente perché attratto dalla
grande fama della Cina. In realtà, né lui né il
Pantoja, che lo accompagnava, saranno mai ricevuti personalmente dal
giovane imperatore, che ormai da anni non compariva più in
pubblico. Wanli però volle i ritratti dei due stranieri dai
suoi pittori di corte, per osservarli in tutta solitudine. E’
verosimile, come racconterà il gesuita Giulio Aleni
(1582-1649) nella sua biografia di Matteo Ricci del 1630, che
l’imperatore abbia solo spiato i due stranieri “attraverso
una tendina di cannucce”. I missionari poterono solo
inchinarsi davanti al suo trono vuoto, ma riuscirono ad ottenere
ugualmente quello che a loro stava veramente a cuore: l’accesso
a corte, la collaborazione scientifica, la stima dei mandarini e
delle persone di cultura della capitale della Cina. Erano queste,
secondo i gesuiti, le condizioni ideali per l’evangelizzazione.
Sulle orme dell’italiano Ricci e del castigliano Pantoja, due
loro successori in Cina, il tedesco Schall (m. 1666) ed il fiammingo
Verbiest (m. 1688), diventeranno addirittura direttori dell’ufficio
imperiale dì
1638;
- Lodi imperiali della vera religione, in cinese, di P.
Hoamfeime, Schanghai 1904; - Choix de documents…(pp.
83-87) curata da S. Couvreur, con traduzione in francese e latina,
Hokienfu 1906; - Raccolta di documenti riguardanti Paolo Xu
Guangqi con nuove aggiunte di documenti, in cinese, di
Siuuenttim, Shanghai 1933. La versione latina, ripresa dal Couvreur,
è in Tacchi Venturi, II, pp. 497-498.
Xiqin
quyi bazhang (Otto canzoni per clavicembalo occidentale),
Pechino 1601.
Ricci ne
parla come composizioni poetiche in cinese “sopra otto materie
morali piene di molto belle sentenze cavate da’ nostri autori
che esortavano alla virtù e al viver bene, con titulo di
Canzone del manicordio d’Europa voltate alla lettera
Cinese”. L’occasione della composizione fu la
richiesta degli eunuchi di imparare a cantare ed a suonare il
clavicembalo donato dal Ricci, per essere pronti a farlo ogni volta
che l’imperatore volesse. Alla loro istruzione musicale si
dedicò, nel palazzo imperiale, il p. Diego de Pantoja, che, a
sua volta, era stato istruito, a Nanchino, dal p. Cattaneo su
previdente decisione del Ricci (Della Entrata…,
lib.IV, cap. XII, p. 352).
Le otto poesie circolarono
con successo tra le persone importanti e di cultura a cui i gesuiti
le regalavano nello scambio di visite. Per queste occasioni e per
maggiore ricercatezza, Ricci ne fece diffondere copie anche in
italiano con testo cinese a fronte.
Confluite
in appendice a I dieci capitoli di un uomo strano (Jirem
shipian) del 1608, le otto canzoni furono più
volte pubblicate nella seconda metà del settecento. Una
ristampa critica più recente è quella di P.M. D’Elia,
Sonate e canzoni italiane alla corte di Pechino nel 1601, in
“La Civiltà Cattolica”, II, 1945, pp. 158-165.
Tianzhu
shiyi (Vero significato del Signore del Cielo),
Pechino 1603.
Il titolo
cinese diventa nel latino di Ricci ‘De Deo verax disputatio”.
Per quanto l’autore vi si riferisca abitualmente come al
‘Catechismo’, il libro è tutt’altra cosa da
un manuale di misteri rivelati per catecumeni. Venne scritto,
invece, “acciocché potesse servire a Cristiani et a
gentili e potesse esser inteso in altre parti remote, dove non
potessero così presto arrivare i nostri, aprindo con questo
il camino agli altri misterij che dipendono dalla fede e scientia
rivelata” (Della entrata…, lib.V, cap.II, p.
455).
A quest’opera
tanto impegnativa, lavoro di “molti anni”, l’autore
dice di star lavorando già dal 1594. E, a cose fatte, potrà
esprimere la sua soddisfazione: “et mi riuscì assai
bene”. Rivista, emendata e limata nello stile da Feng
Yingijing, “mandarino gran letterato et amico nostro”
–sottolinea Ricci-, venne stampata la prima volta a Pechino
nel 1603, ovviamente “con licentia degli inquisitori”.
E’, insieme al Mappamondo, l’opera principale di
Matteo Ricci in lingua cinese. Pensato per sostituire il primo e del
tutto inadeguato Tianzhu shilu di Ruggieri-Ricci (1584),
questo secondo ‘Catechismo’ ebbe grande diffusione da
subito. Finì per diventare un punto di riferimento
obbligatorio nel dialogo culturale tra Cina ed occidente. Come già
Tianzhu Shilu, Tianzhu shiyi ha forma di dialogo; qui
tra un “letterato occidentale” (xishi) ed un
“letterato cinese” (zhongshi). L’autore
stesso riferisce di essersi prefisso lo scopo di “insegnare
con dichiarare le cose principali della nostra santa fede e
dilettare con molti esempi, detti de’ nostri dottori, e varie
cose di philosophia mai udite nella Cina, e di muovere con proporre
la necessità che l’uomo tiene a ricercare le cose della
sua salvatione e la speranza che la fede cristiana dà
dell’altra vita” (Lettere, p. 399).
Un’intenzione, certo, religiosa ed apologetica, ma senza
appelli all’autorità biblica o ad altri tradizionali
argomenti di fede, che sarebbero caduti nel vuoto. Il ‘Catechismo’
di Ricci-Xitai (Xitai era il soprannome cinese
dell’autore), è piuttosto un’ardita operazione
interculturale che parte dal “vero” (zhen shi)
che sta in ogni uomo e crea i presupposti, anche terminologici, per
il confronto tra due filoni di pensiero diversi, coniugando le
tematiche della speculazione cinese in un discorso filosofico tutto
nuovo, animato dalle tipiche movenze argomentative care all’Europa
del Rinascimento e della Controriforma.
Appassionata
la conclusione del dialogo sul tema dell’Incarnazione calata
nella storia cinese. Il Signore del Cielo, con il nome di Gesù,
venne sulla terra - racconta il letterato occidentale a quello
cinese - “il terzo giorno del solstizio d’inverno, 1603
anni fa, l’anno chemscen, secondo del periodo Iuensceu
dell’imperatore Nghae della dinastia Han” e, a missione
compiuta, se ne tornò in Cielo. Solo per un errore degli
inviati dell’imperatore Mim degli Han -continua il letterato
occidentale- in Cina arrivarono i libri del buddismo e non i quattro
Vangeli scritti da quattro santi. “ Il vostro nobile regno ne
è stato ingannato fino ad oggi e non ha sentito parlare della
vera religione. Non sarebbe questa una dolorosa disgrazia per la
scienza e per le arti ?” Da qui -egli spiega- la ragione
dell’arrivo degli occidentali tra i Cinesi: diffondere il
Vangelo e ”non di far da maestri agli altri, ma, mossi da
compassione, di rimetterli sulla via primitiva e di condurli nella
santa religione del Signore del Cielo”. In conclusione,
l’interlocutore cinese del Tianzhu shiyi promette di
riflettere su tutto, esattamente come doveva essere successo nella
realtà di tanti incontri dell’autore con i colti
funzionari dell’impero che lo avevano avvicinato incuriositi
dalla sua fama.
Il contenuto
del libro, l’accordo dichiarato con l’antica dottrina
confuciana (la riteneva compatibile con il cristianesimo e la
interpretava in senso cristiano), l’attacco diretto, invece,
al buddismo e al taoismo (soprattutto al buddismo che vedeva solo
come una stolta e nociva forma di idolatria), ebbero l’effetto
che il p. Matteo desiderava: a fronte del risentimento dei bonzi,
ampiamente previsto, la ben più importante attenzione e
curiosità (non l’adesione incondizionata)
dell’intellettualità di formazione confuciana, che
vedeva in lui il capo di una scuola di pensiero; ruolo che Ricci si
era ritagliato con pazienza anche nel modo di vestire. E gli
intellettuali confuciani si mettono a stampare il ‘Catechismo’
di loro iniziativa “e lo vendono pubblicamente a molti che lo
comprano, parendo che è pur bona la legge, se bene -commenta
disincantato il maestro- loro non si dispongono anche a seguirla”
(Lettere, p. 519). Si dà per certo che la lettura di
Tianzhu Shiyi indusse l’imperatore Kangxi (1661-1722) a
pubblicare il suo editto di tolleranza religiosa (1692).
Tianzhu
shiyi ebbe numerose ristampe e nuove edizioni in Cina. Quelle
moderne arrivano fino al 1985. Se ne fecero traduzioni, com’era
nella speranza di Ricci, anche “in altre parti remote”:
in coreano, mancese, vietnamita, mongolo, tonchinese e giapponese.
Proprio dalla edizione del 1604 (o 1605) voluta dal Visitatore
Valignano per il Giappone, dove il temine introdotto per indicare
Dio era traslitterato dal latino, iniziarono le controversie sulla
scelta fatta dal Ricci per tradurre lo stesso termine in cinese. Li
Madou-Xitai, infatti, per tradurre la parola ‘Dio’ aveva
adottato termini già esistenti nella lingua cinese e secondo
lui compatibili: Tianzhu, Shangdi e Tian. Ne nacque la
famigerata e dannosissima ‘questione dei riti cinesi’,
che riguardò anche la posizione di Ricci sul culto cinese
degli antenati e delle onoranze a Confucio, da altri ritenuta tropo
compiacente nei confronti del materialismo confuciano, erronea, non
ortodossa. Morto Ricci, la rigidità della Chiesa e di molti
missionari (a partire dai primi suoi successori a Pechino),
l’asprezza di un confronto diplomatico-religioso assai spinoso
con le autorità cinesi, vanificarono, nell’arco di poco
più di un secolo, le sue scelte dottrinali e finirono per
causare la quasi totale rovina delle missioni cattoliche in Cina.
Con la condanna del culto cinese di Confucio e degli antenati
decretata dall’Inquisizione (1704), infatti, con la
proibizione di questi riti sotto pena di scomunica da parte del
legato Tournon (1707), con la loro condanna definitiva pronunciata
da papa Benedetto XIV (1742), su Matteo Ricci, battistrada del
metodo missionario dell’adattamento, cadde una specie di
damnatio memoriae. In Cina, al contrario, Tianzhu shiyi,
manifesto maturo del sistema di adattamento culturale, resta tra le
opere notevoli di quella letteratura. Inspiegabile il motivo per cui
ancora oggi, a distanza di sicurezza dalla ‘questione dei
riti’ e nonostante l’esplicita rivalutazione dell’opera
dell’ “apostolo della Cina” da parte della Chiesa,
di questo libro di grande valore storico, scritto in cinese da un
occidentale, non ci sia ancora un’edizione europea o
italiana.
Tianzhu
Shiyi, nell’ed. del 1603, la più antica, venne
inviato dal Ricci stesso al Generale dei gesuiti Acquaviva nel 1604
(insieme ad un manoscritto autografo) e rintracciato alla Bibl.
Casanatense di Roma (ms. n° 2136) dal
D‘Elia, che ne pubblicò in fotoriproduzione l’incipit
dei cc. I e II con l’indicazione del suono e del senso delle
prime linee di mano del Ricci (Fonti Ricciane, II, p. 292,
tav. XVIII) . Altri
esemplari di edizioni successive sono a Roma, in Vaticano, a Parigi.
Alcuni esemplari, posteriori al 1615, cambiano il titolo in Tianxijo
Shiyi o Solido trattato sul cristianesimo, essendo, nel
frattempo, il primo titolo passato a significare cristianesimo tout
court. Il testo cinese più diffuso di Tianzhu shiyi
è quello della edizione del 1607, rivisto dal Li Zhizao, che
lo incluse poi nella sua raccolta di libri cristiani (Tianxue Chu
Han) del 1629. Molte le ristampe moderne in Cina: Tousewé,
Shanghai del 1935, Nazareth, Hong Kong del 1939, Chongdetang,
Tianjin (testo originale e versione in cinese parlato) de1941,
Zhongguo Shixue Congshu, Taipei de1965 (nella ristampa di
Thianxue Chu Han di Li Zhizhao), Taipei del 1966 (con traduzione
in cinese moderno di Liu Lucas), Guangqi,Taizhong (con versione in
cinese moderno di Liu Xunde e nota filologica di Gu Baogu) del 1967.
Ed.
Recente: E. J. Malatesta, ed., The true meaning of the
Lord of Heaven = T’ien-chu shih-i, chinese
(text with parallel english translation by D. Lancashire and P. Ho
Kuo-chen), Taipei, Institut Ricci, 1985.
Ershiwu yan (Venticinque sentenze),
Pechino 1605.
Operetta di
carattere morale “in venticinque capitoli assai brevi”,
composta tra febbraio 1599 e maggio 1600. In essa -dichiara Ricci-
“non faccio altra cosa che parlar della virtù e viver
bene con molta interezza come filosofo naturale, ma cristiano, senza
confutare nessuna secta: e così è letto et è
gratissimo a tutti di qualsivoglia secta che sia” (Lettere,
p. 377); gradita anche ai buddisti, le cui opinioni e credenze erano
state, invece, confutate nelle opere di carattere apologetico, e con
giudizi così parziali e riduttivi da apparire oggi
imbarazzanti.
Noto
anche come Venticinque parole, il libretto ebbe discreto
successo e, dopo qualche anno di divulgazione amichevole, fu fatto
stampare, la prima volta, nel 1605 da Feng Yingjing (v. su di lui
anche le voci per il Trattato sull’amicizia e la
Dissertazione sui quattro elementi), funzionario veneratissimo in
patria e da tutti “tenuto per santo”, che ne fece una
prefazione da Ricci definita “assai grave”. Ad un
“epilogo” per l’opera volle provvedere Xu
Guangqi, alias dottor Paolo (1562-1633), uno studioso convertito al
cristianesimo e molto caro al Ricci, che diventerà, dopo la
morte di lui, ministro imperiale dei Riti e precettore del principe
ereditario. Nell’epilogo del dottor Paolo -sottolinea Ricci-
sono dette “molto elegantemente varie cose che autorizzano
molto la nostra cristianità” (Lettere, p.377); e
l’autorità di questo apprezzato scrittore e letterato
diede alle Venticinque sentenze “molto maggior autorità
per la fama della sua composizione e per stendersi in esso in dir
molto bene della legge Christiana, e scoprirsi egli a tutti seguace
di questa legge” (Della entrata…, lib.IV, cap.II,
p. 453). Il successo dell’opera era dovuto, e Ricci lo sapeva
meglio di tutti, ad un certa coincidenza tra concezioni morali cinesi
e concezione morale cristiana, soprattutto quando, come qui, essa si
venava di antico stoicismo. Ed infatti, in quest’opera del
Ricci confluiscono soprattutto i temi dell’Encheridion
del filosofo greco Epitteto (50-115 d.C.) oltre che altri classici
dello stesso filone di pensiero.
Tianzhu
jiaoyao (Compendio della dottrina del Signore del Cielo),
Pechino
1605.
Chiamato più
comunemente dal Ricci “Dottrina Christiana” è
“una nova versione delle orazioni” da lui ritenuta “cosa
importantissima”, dato che i missionari l’aspettavano
ormai da tempo e che c’erano “molte difficoltadi di
tradurla in lettera cina”. Il Compendio è,
dunque, un manualetto più chiaro, più completo e
“assai più conforme al testo di quello che era sinhora”
. Ricci lo stampò nel marzo 1605, avendone, come per
Tianzhu shiyi, il permesso degli inquisitori di Goa. Per ordine
del suo superiore Valignano, lo fece poi distribuire alle altre
missioni della Cina per sostituire la precedente “Dottrina”
di Ruggieri-Ricci (1584), che, “avendola emendata molte volte,
quasi era differente [in] tutte le quattro case l’una
dall’altra”. Era destinato “non solo à
cristiani, ma anco à gentili de’ quali vi fusse qualche
buona speranza”. Oltre alle preghiere fondamentali, al
Decalogo, al Credo, il nuovo manuale conteneva in più
le opere della misericordia corporali e spirituali, le otto
beatitudini, i sette peccati mortali, i sette rimedi contrari, i
cinque sensi del corpo, le tre potenze dell’anima, le virtù
teologali ed infine “i nomi de’ sette sacramenti nella
nostra lingua, e con lettere piccole gli facessimo una breve, ma sì
compendiosa dichiarazione di essi che gli dà grande lume per
intender la sustanzia di essi”. Lo stesso anno della
pubblicazione, ne scrisse al p. de Fabij, che era stato suo maestro
di noviziato ed era ora Rettore del Collegio Romano: “Questa
nova versione feci con molta diligentia…… fu
necessario usare e fare molte parole ecclesiastiche e nuove nella
Cina” (Lettere, p. 386). Il libretto dovette costare
all’autore, dunque, più di una preoccupazione
teologico-linguistica e note di spiegazione per le fonetizzazioni
dal latino e dal portoghese. Ne inviò diverse copie in
Italia, una anche a suo padre a Macerata. Interessante, sempre nella
lettera al p. de Fabij, una nota di carattere tipografico: i gesuiti
di Pechino avevano “ tavole” (cliché in legno) e
legatoria in casa, di loro proprietà, il costo della stampa
era solo per la carta. E quando “alcuni christiani e gentili”
regalavano loro carta da stampare, c’erano catechismi ed altre
opere gratis per tutti.
Jiren
shipian (Dieci capitoli di un uomo strano),
Pechino 1608.
Ricci, che
evidentemente aveva l’abitudine di prendere nota di ogni cosa
per lui notevole, riferisce che I dieci capitoli non sono
altro che la ripresa delle conversazioni tenute “molto
familiarmente” qualche mese dopo il suo arrivo a Pechino, nel
1601, con due altissimi funzionari imperiali: Feng Qi (1559-1603),
allora vice-ministro del Personale, e Li Dai (1531-1697), libu
shangshu, cioè il capo dello stesso Ministero, allora
sessantenne. A casa di Li Dai, Ricci era stato invitato più
di una volta e con lui si era intrattenuto “ragionando delle
cose dell’altra vita, alle quali era quel vecchio molto
inclinato” (Della entrata…, libro IV, cap. XIV,
p. 367).
L’opera
venne stampata nel 1608 e poi altre volte successivamente. E’
strutturata in dieci agili dialoghi tra l’autore ed i suoi
illustri interlocutori. Il riferimento principale è ancora
alla filosofia morale di Epitteto (50-115 d.C.), ma non vi mancano
altri filosofi classici e i dottori della Chiesa “con autorità
della nostra sacra scrittura”. L’oggetto principale è
la riflessione sul significato della morte. A partire dal Ricci
stesso, ai Dieci capitoli si fa riferimento anche con il
titolo di Dieci paradossi, perché per i Cinesi certi
temi morali (l’uomo è solo un ospite sulla terra, è
utile il pensiero della morte, la sanzione del bene e del male dopo
questa vita, ecc.) erano -riferisce il Ricci- paradossi mai uditi.
Alla curiosità suscitata in Cina dal contenuto di questo
libro, da tutti ritenuto, infatti, strano e paradossale, ma anche
all’autorità degli interlocutori del Ricci, si dovette
il successo dell’opera tra “tutti i letterati, dentro e
fuori le corti”. I quali “fecero tanti proemij et
encomi di questi libri, che, si fussero stampati, avrebbono fatto un
buon libro per se stessi” (Della entrata…Lib. V,
cap.II, p.457). Gli elogi dei Cinesi fecero ben sperare i gesuiti
sulla fine di ogni manifestazione xenofoba e dell’eterno
sospetto che essi, “con colore di predicare”, stessero
macchinando qualche ribellione in Cina. Speranza che andrà
incontro a cocenti delusioni. In ogni caso, I dieci paradossi,
come le Otto canzoni e qualche altra opera del Ricci,
verranno inseriti, verso la fine del sec. XVII, tra le migliori
produzioni letterarie cinesi.
I
titoli dei dieci capitoli dei Paradossi (“ che in tutti
fanno da cento fogli grandi”) sono riportati nella lettera al
p.Gerolamo Costa del 6 marzo 1608. Il titolo cinese dell’opera
è da mettere in relazione con il nomignolo con cui il Ricci
veniva chiamato negli ambienti letterari del tempo: Jiren
(strano, straordinario). Il suo nome cinese, però, era Li
Madou (ottenuto dalla trascrizione del suono iniziale del suo
cognome e dal suo nome italiano). Ricci aveva, come tutti i Cinesi,
anche un “nome grande” o soprannome pubblico, Xitai,
che significa “estremo occidente”. Del Jiren shipian
si conosce un Sunto poetico-ritmico di provenienza cinese,
pubblicato dal D’Elia in “Rivista degli studi
orientali”, Roma 27, 1952, pp. 111-38; l’autore del
Sunto viene individuato da D’Elia nello stesso
letterato che fece una delle ta
nanza al suo
discorso contro “le secte idolatriche” e spazio alle
polemiche. Quella in quattro punti, anch’essa nel carteggio,
veniva da uno dei massimi esponenti del buddismo, il bonzo Fu Hui,
il quale, in un suo libro, aveva colto l’occasione per
rintuzzare le severe critiche del Ricci alla sua religione. I punti
in questione e le quattro risposte del Ricci riguardano l’essenza
di Dio, l’uccisione degli esseri viventi, il culto di Budda e
la metempsicosi. Queste carte manoscritte vennero trovate dopo il
1615 e date alle stampe da Li Zizhao, il quale, successivamente, nel
1629, le incorporò in una raccolta chiamata appunto Carteggio
di apologetica. La raccolta comprende anche due lettere: quella
del mandarino Chang Ju che, dopo la lettura dei Dieci Paradossi,
invita, con molta cortesia, Ricci ad informarsi meglio sul buddismo
ed a rivedere la sua posizione, e la relativa risposta, altrettanto
cortese ma netta, del Ricci. Il Carteggio ha in coda un
brevissimo Epilogo del “dottor Michele”,
funzionario imperiale di altissimo rango, che conobbe il Ricci a
Pechino e, dopo la sua morte, offrì consulenza e prefazioni
alle opere dei missionari Pantoja e Aleni.
La
pratica e l’amore per le dispute nella Cina del tempo, con
scuole, correnti di pensiero, celebri maestri, sono ben illuminati
nel lib. IV, cap.VII di Della entrata…, che riporta il
contraddittorio agitato ed a tratti divertente tra Ricci ed il
celebre bonzo San Huai, a casa del vecchio mandarino Ligiucin a
Nanchino, all’inizio del 1599. Questa disputa, letta in un
estratto del De christiana expeditione apud Sinas del
Trigault, divertì molto Goethe che la definì ‘dialogo
filosofico pazzesco’ e ne fece oggetto di corrispondenza con
Schiller (Der Briefwechsel zwischen Shiller und Goete, ed. da
H.G. Graf e A. Leitzmann, pp.422-23). Sul carteggio Goethe-Schiller
a proposito della diatriba Ricci-San Huai si veda H.-G. Gruning,
Goethe e il pensiero cinese. La mediazione del P. Matteo Ricci,
in Atti del convegno internazionale di studi ricciani,
Macerata-Roma 22-25 ottobre 1982, a cura di M. Cigliano,
Macerata, Centro Studi Ricciani, 1984, pp. 93-99.
Della
entrata della Compagnia di Giesù e Christianità nella
Cina,
Pechino 1608-1610.
Più
comunemente noto come I Commentari (titolo di eco cesariana
assegnatogli dal Tacchi Venturi sulle orme del Trigault), un po’
diario ed un po’ autobiografia, è il resoconto
dell’avventurosa e difficile missione dei gesuiti in Cina dal
1582 fino alla morte dell’autore: la prima missione cristiana
in quella lontanissima terra. Vi sono raccontate “le cose più
notabili”, di cui “la magior parte o passorno per le mie
mani o seppi molto esattamente”. E le volle raccontare, il
padre Matteo, negli ultimi anni della sua vita, perché -è
la premessa del cap. I°- se un giorno “il piccolo seme”
crescerà, sappiano i cristiani dove cominciare per
ringraziare Dio e rendergli gloria. Nel caso malaugurato invece che
il seme “non arrivasse a dare il frutto che i suoi primi fiori
promettono”, resterà pur sempre una testimonianza di
quanto la Compagnia di Gesù ha fatto e patito “per
aprire questa entrata e cominciare a rompere questo bosco fiero”.
E proseguendo, annuncia che il suo racconto, a differenza delle
relazioni annue interne alla Compagnia di Gesù, “si fa
principalmente per i nostri europei”, i quali -dice di sapere-
hanno a disposizione sempre più libri sulle cose della Cina,
ma “a nessuno sarà discaro saperle piuttosto da noi,
che già trenta anni viviamo in questo regno…..che da
altri che mai vennero alla Cina”.
Attraverso la
versione latina del Trigault, quest’opera di Ricci è
stata, fino al sec. XIX, la principale fonte di conoscenza della
Cina in Occidente. Cessato il gusto dei secoli scorsi per l’esotismo
e la ‘chinoiserie’, la sua riscoperta attuale sembra
marciare sull’onda del più attuale incontro-scontro con
“quei di diversa natione”, i loro comportamenti, i loro
valori. Della entrata …, infatti, oltre ad illuminare
la Cina del tempo, è il racconto storico
dell’incontro-scontro tra due mondi e due culture di quattro
secoli fa. L’impegno intellettuale, le energie, il lavoro, lo
studio, la tolleranza, il metodo missionario impiegati da Matteo
Ricci e compagni per superare la diffidenza di “questo altro
mondo della Cina”, per comprenderlo ed avvicinarlo, sembrano
intervenire di forza, anche sotto i segni di una comunicazione e
visione del mondo d’altri tempi, nel dibattito interculturale
di oggi.
Tormentata la
storia editoriale di quest’opera che Ricci scrisse come altra
cosa da quello che, per tre secoli, sarebbe poi diventata. La
scrisse in un italiano tutt’altro che ‘cruscante’,
piuttosto vicino ad un parlato antico centro-italiano ma non
toscano, con influssi dallo spagnolo e dal portoghese, lingue da lui
più praticate in Oriente. Il manoscritto venne portato in
Italia, insieme al ritratto del Ricci eseguito post mortem,
dal gesuita Nicolas Trigault, che lo integrò, lo completò
e lo diede alle stampe nel 1615 in versione latina (vedi sotto). Fu
l’edizione latina del Trigaut ad avere grande successo e ad
avere molte traduzioni, anche - cosa veramente curiosa- in italiano,
la lingua dell’originale di cui, nel frattempo, si erano perse
le tracce.
Il
manoscritto del Ricci, ritrovato casualmente dopo tre secoli (1909)
da P. Tacchi Venturi nell’Archivio Storico della Compagnia di
Gesù, verrà da lui pubblicato nel 1911 con il titolo
I Commentari della Cina nel I° vol. delle Opere
storiche del P. Matteo Ricci S. I. Dopo circa trent’anni,
con il titolo ancora diverso di Storia dell’introduzione
del Cristianesimo in Cina, verrà ripubblicato dal gesuita
e sinologo Pasquale M. D’Elia nel I° e II° vol. delle
Fonti Ricciane, che avrebbero dovuto essere (e non furono per
la morte del curatore) la completa “Edizione Nazionale”
italiana delle opere del grande maceratese, fornita di ricco
apparato critico-sinologico, di documenti e fonti cinesi. La terza,
e finora ultima, riproposta del testo ricciano è quella
recente dell’editore Quodlibet di Macerata (2000). Questa
edizione, pur accogliendo e distinguendo le integrazioni in latino
ed in portoghese del Trigault come le due precedenti, ha il pregio
di essere la più vicina all’originale ed è
l’unica che gli restituisce il suo vero titolo: Della
entrata della Compagnia di Giesù e Christianità nella
Cina.
Recentemente è
stato avanzato qualche dubbio sulla paternità del
manoscritto, motivato soprattutto dalla circostanza che di esso non
si parli nell’elenco delle carte riccianesteso dal gesuita
Sabatino De Ursis (1575-1620), che assistette il p. Matteo in punto
di morte. Ma è tesi per nulla convincente a fronte del ricco
quadro di riferimenti e testimonianze di Ricci e contemporanei.
EDIZIONI
DEL MANOSCRITTO RICCIANO SUCCESSIVE AL RITROVAMENTO DEL 1909:
Tacchi
Venturi P., ed., I commentarj della Cina, in Opere
storiche del P. Matteo Ricci S.I., edite a cura del Comitato
per le onoranze nazionali con prolegomeni note e tavole dal P.
Pietro Tacchi Venturi S.I., 2 voll; I: I Commentarj della Cina,
dall’autografo di Matteo Ricci, II: Le lettere dalla Cina,
1580-1610, con appendice di documenti inediti, Macerata, stab.
tip. F. Giorgetti, 1911-1913.
D’Elia
P.M., ed.., Storia dell’introduzione del Cristianesimo in
Cina, in Fonti Ricciane: documenti originali concernenti
Matteo Ricci e la storia delle prime relazioni tra l’Europa e
la Cina (1579-1615), edite e commentate da Pasquale M. D’Elia,
sotto il patrocinio della Reale Accademia d’Italia (Edizione
nazionale delle opere edite e inedite di Matteo Ricci) 3 voll.; I:
Storia dell’introduzione del Cristianesimo in Cina: da
Macao a Nanciam (1582-1597), libri 1-3; II: Storia
dell’introduzione del Cristianesimo in Cina: da Nanciam a
Pechino (1597-1611), libri 4-5; III: Appendici e indici,
Roma, La libreria dello Stato, 1942-1949. -
Edizione recente:
Ricci
Matteo, Della Entrata della Compagnia di Giesù e
Christianità nella Cina, realizzata sotto la direzione
di P. Corradini, a cura di M. Del Gatto, prefazione di F. Mignini,
Macerata, Quodlibet, 2000.
EDIZIONI
ANTOLOGICHE:
Nebiolo G.,
(a cura di), Imperatori e mandarini: estratti della Storia
dell’introduzione del cristianesimo in Cina Torino,
Società editrice internazionale, 1981. - Guadalupi G. (a
cura di), La Cina: le arti e la vita quotidiana, viste da Matteo
Ricci ed altri missionari gesuiti, Milano, F. M. Ricci, 1980.
- Guadalupi G., Stocchi G. (a cura di), La chine: les arts et la
vie quotidienne d’après le p. Matthieu Ricci et
d’autres missionaires jesuites, introd. de J. F. Schutte
S. J., note sur l’iconograpfie par M. Bussagli, trad. di S.
Aghion, Milano, F. M. Ricci, 1982. - Idem, trad. inglese di J.
Shepley, Milano, F. M. Ricci, 1984. - Della entrata della
Compagnia di Giesù e Cristianità nella Cina (1609):
antologia ricciana con la riproduzione del Mappamondo cinese (1602),
Milano, Libri Scheiwiller, 1983. - La Cina e i Cinesi del 1600
dai Commentari della Cina di P. Matteo Ricci, Civitanova Marche,
Rivista italiana di medicina tradizionale cinese (supplemento a),
1995.
“Della
entrata…” o “De Christiana expeditione…”
?
Della
entrata della Compagnia di Giesù e Christianità nella
Cina di Matteo Ricci, come detto appena sopra, venne
integrata e pubblicata in versione latina, cinque anni dopo la morte
dell’autore, dal gesuita Nicolas Trigault. Con un lungo
titolo: De Christiana Expeditione apud Sinas suscepta ab
Societate Iesu. Ex P. Matthaei Ricij eiusdem Societatis
Commentarjis. Libri V. Ad S.D.N. Paulum V. In quibus Sinensis Regni
mores leges atque instituta & nova illius Ecclesiae difficillima
primordia accurate et summa fide describuntur. Auctore P.
Nicolao Trigautio belga ex eadem Societate. Augustae
Vind. Apud Christoph. Mangium, MVCXV.
Successive edizioni::
Lugduni 1616 (editio recens ab eodem auctore multis in locis aucta &
recognita), e ancora 1617, 1623, 1684.
Nicolas
Trigault (1577-1628), missionario, umanista e sinologo, autore di
un importante manuale di traslitterazione del cinese (1626) e
fondatore della missione dello Shenxi (1625), portò il
manoscritto ricciano in Italia dalla Cina. Ciò avvenne nel
1612, quando, dal p. Nicolò Longobardo, succeduto al Ricci a
capo delle missioni cinesi, Trigault venne inviato a Roma per
presentare un rapporto al papa Paolo V e trattare con lui di
questioni inerenti il cattolicesimo in Cina. Durante il suo
soggiorno in Italia, Trigault integrò e completò il
manoscritto ricciano con informazioni tratte dalle relazioni annuali
inviate dalla Cina al Preposito generale dei gesuiti a Roma,
concludendo la narrazione con il racconto della morte e della
sepoltura del Ricci a Pechino. Il manoscritto ricciano, così
completato ed integrato, Trigault lo tradusse poi in latino ed ebbe
il tempo di curarne due successive edizioni, quelle del 1615 e 1616.
Tornò in Cina nel 1618 con le importanti disposizioni del
papa su quella cristianità ed un enorme quantità di
bibbie.
Il latino
della versione del Trigault permise la grande ed immediata
diffusione dell’opera in Europa, ma la vanitosa attribuzione
di essa a sé stesso da parte del traduttore (“auctore
P. Nicolao Trigautio”) e la scomparsa dell’originale
fecero calare, per tre secoli, una fitta nebbia sulla figura e sul
nome del vero autore: Matteo Ricci. La verità sarà
ricostruita con il ritrovamento del manoscritto nel 1909 presso
l’Archivio Romano della Compagnia di Gesù, dove era
stato dimenticato per tre secoli e dove ancora si trova
(Jap.-Sin.,106°).
L’integrazione
del manoscritto ricciano da parte di Nicolas Trigault consta di
alcuni capitoli in portoghese (due terzi del XVII° e tutto il
XVIII° del libro IV, i capp. XVIII-XX del lib.V) ed altri in
latino (i capp. XXI e XXII dello stesso libro V). Quantitativamente
consiste in circa un quarto dell’intera De Christiana
Expeditione apud Sinas. Di questa, ad avere maggiore diffusione
fu senza dubbio l’estratto contenente il I° libro, che
divenne, per l’Europa del sec. XVII, la massima fonte di
informazioni sulla Cina; bbe circolazione autonoma (Nic.
Triautii de regno Chinae, 1639) ed anche in raccolta con altri
scritti sullo stesso tema (Regni Chinensis descriptio ex varijs
auctoribus, Lugd. Batav.,ex offic. Elzeviriana, 1639). Non fu
questo, però, l’unico estratto dal Trigault-Ricci.
Goethe, per esempio, lesse la disputa tra Matteo Ricci ed il bonzo
San Huai (Della Entrata …, lib.IV, cap.VII) in
una raccolta secentesca di curiosità esotiche (per le dispute
in Cina al tempo di Ricci v. la voce Carteggio di apologetica).
In
Italia, per la diffusione della conoscenze sulla Cina, è
d’obbligo ricordare anche La Cina (1663) dello
scrittore gesuita Daniello Bartoli (1608-1685), una delle parti di
cui si compone la sua Historia della Compagnia di Giesù.
Il Bartoli, scrittore il cui stile sarà molto apprezzato
da Giacomo Leopardi, consultò a fondo l’archivio della
Compagnia, si servì di testimonianze di viaggiatori e
missionari, comprese le carte di Matteo Ricci.
Traduzioni
del “De Christiana Expeditione…” di Nicolas
Trigault:
In italiano:Entrata nella China de’ padri della
Compagnia del Gesù. Tolta dai Commentarij del P. Matteo
Ricci di detta Compagnia. Dove si contengono i costumi, le leggi &
ordini di quel Regno e i principij difficilissimi della nascente
Chiesa e con molta accuratezza e con molta fede. Opera del P.
Nicolao Trigauci Padre di detta Compagnia, & in molti luoghi
da lui accresciuta e reuista. Volgarizzata dal Signor Antonio
Sozzini da Sarzana. In Napoli. Per Lazzaro Scoriggio,1622;
in
ed. recente: Matteo Ricci – Nicolas Trigault, Entrata
nella China de’ padri della Compagnia del Gesù,1582-1610,
volgarizzazione di Antonio Sozzini (1622), introduzione di J. Shih
e C. Laurenti, Roma, Edizioni Paoline, 1983.
In
francese: Histoire de l’expédition
chrétienne au royaume de la Chine entreprise par les PP. de
la Compagnie de Jésus…..tiré
de commentaires du P. Mathieu Riccius par le P. Nicolas
Trigaut…..et nouvellement traduit par le Sr D. F. de
Riquebourg Trigault, Lyon, H. Cardon, 1616 ;
Successive edizioni :
Lille 1617, Paris 1618( trad.par T.C.D.A.) e 1908.
in
ed. recente : Histoire de l’expédition
chrétienne au royaume de la Chine :1582 -1610,
introduction par J. Shih S. J., établissement du texte et
annotations de G. Bessière, tables ed index par J.Dehergne
S.J., Paris, Desclée De Brouwer - Montréal,
Bellarmin, 1978.
In
inglese: A discourse of the
Kingdome of China, taken out of Ricius and Trigautius, in
Purchas (S.), Purchas his Pilgrimes, etc. pt. 3, 1625, fol.
(estratto).
Prima
ed. integrale: China that was, China as discovered by the
Jesuits at the close of the sixteen century,
by L. J. Gallagher S.J., Milwaukee, The Bruce publishing company,
1942;
Ed.
più recente: China in the seexteenth century: the
journal of Matthew Ricci, 1583-1610, by L.J.
Gallagher S.J., with a foreword by R. J. Cushing, Archbishop of
Boston, New York, Random House, 1953, 1970.
In
tedesco: Historia von Einfuehrung
der Christlichen Religion in dass grosse Koenigreich China durch
die Societet Jesu. Sambt wol gegrundten bericht von beschaffenhaitt
dess Landts und volcks, auch desselbigen gesatzen, Sitten, und
gewonhaitten. Aus dem Lateinischen R. P. N.
Trigautii......., Augspurg, 1617.
In
spagnolo: Historia de la China y
Cristiana impresa hecha en ella por la Compagnia de Jesus, que de
los escritos del Padre M. Ricci ... Traduzida de lengua latina
por el Licenciado Duarte (Fernandez), Sevilla, 1621.
In
cinese: Li Madou Zhongguo zha ji /
Li Madou Jin Nige zhu; He Gaoji, Wang Zhunzhong, Li Shen yi;
HeZhaowu jiao (trad. dalla versione
inglese di L. J. Gallagher del 1953), Beijing 1983.
Lettere
1580-1609.
Documento
eccezionale, che integra “Della entrata…”,
sono le 54 lettere del Ricci che si sono conservate. Scritte
dall’India e dalla Cina, danno conto delle difficoltà
di approccio con il mondo “altro” della Cina,
dell’impegno missionario, dell’infaticabile opera
editoriale, ma anche della difficoltà di comunicazione con
l’Europa e dell’isolamento di chi le scrive. Una
precarietà di rapporto che, insieme alla paura di essere
dimenticato, agghiaccia il lettore moderno: “Stiamo tanto
lontani –scrive nel 1594- che bisogna che passino sei anni et
alle volte sette per tener risposta alle lettere che scriviamo a
Europa …; e molte volte ricordandomi quante lettere assai
lunghe ho scritte a morti di costà, mi toglie la forza e
l’animo di scriverle” (Lettere, p. 192). Ma
continuerà a scrivere, sempre in un italiano dal lessico
antico, dalle movenze sintattiche vicine al parlato, irregolare,
venato di spagnolismi e portoghesimi, lontano mille miglia dalla
lingua letteraria ormai codificata in Italia. Scrive ai suoi
superiori, come era tenuto a fare, per informarli della realtà
della Cina e del suo lavoro missionario, scrive, con un registro più
informale, ai confratelli cui era legato, ed ai suoi familiari di
Macerata. Sempre animato da grande fede in Dio e fiducia nel buon
esito della missione in Cina, nulla o quasi lascia trasparire delle
sue emozioni, neppure nei racconti più drammatici. Su p.
Matteo pesano, infatti, la formalità e la moralità del
gesuita. La sua affettività, tenera ma sempre molto
contenuta, le sue emozioni, le scioglie nel lavoro, nei progetti,
negli espedienti per dare forza e continuità alla missione in
Cina.
Tranne
quella diretta al P. Maselli nel 1586, scoperta e pubblicata dal
D’Elia nel 1935, l’intero corpo delle lettere ricciane
finora conosciute è nel II° vol. delle Opere storiche
del P. Matteo Ricci S.I,. curate da P. Tacchi Venturi nel
1911-1913. Tratta dal Tacchi Venturi, salvo pochissime varianti, è
la recente edizione maceratese (Matteo Ricci, Lettere, 2001)
uscita in volume gemello a quello di Della entrata... Questi
due volumi, entrambi delle Ed. Quodlibet, oltre che di bibliografia
e cronologia ricciana, sono corredati di un utile glossario dei nomi
di persona e dei termini nì¥Á9 ð¿»N
bjbjýÏýÏ.ØŸ¥Ÿ¥»Jÿÿ¤ÿÿ¤ÿÿ¤l(((((((µ<ŠGŠGŠGŠGäì¥Á9
ð¿»N
bjbjýÏýÏ.ØŸ¥Ÿ¥»Jÿÿ¤ÿÿ¤ÿÿ¤l(((((((µ<ŠGŠGŠGŠGäiti,
Macerata, stab. tip. F. Giorgetti, 1911-1913.
Edizione
recente:
Ricci
Matteo, Lettere (1580-1609), edizione realizzata sotto la
direzione di P. Corradini, a cura di F. D’Arelli,
prefazione di F. Mignini, con un saggio di S. Bozzola, Macerata,
Quodlibet, 2001.
EDIZIONI
PARZIALI:
Annua di
Giappone del MCVIII scritta dal p. Gabriel de Matos al R.P. Claudio
Acquaviva Generale della Compagnia di Gesù. Con una della
cina e delle Molucche, Roma, Zannetti, 1605 (contiene la lettera
al p. Nicola Longobardo del 2 settembre 1602). - Annua dalla Cina
del MDCVI e MDCVII del P. Matteo Ricci della Compagnia di Giesù
al Molto R.P. Claudio Acquaviva Generale della Medesima Religione,
Roma, Zannetti, 1610 (contiene la lettera al p. Acuaviva del 18
ottobre 1607). – Idem: Annua della Cina del 1606 e 1607 del
padre M. Ricci, etc., Milano 1610. - Idem in versione latina:
Litterae Japonicae anni M.DC.VI. ….Chinenses anni
M.DC.VI. & M.DC.VII Illae a R.P.J. Rogriguez, hae a R.P.M.
Ricci, Societatis Jesu Sacerdotibus transmissae……
latine redditae a Rhetoribus Collegij Soc. Jesu Antverpiae,
Antverpiae 1611. - D’Elia
P.M., I primordi delle missioni cattoliche in Cina, secondo una
lettera inedita del P.M. Ricci, in “Civiltà
Cattolica”, 86, 4 (1935), pp. 25-37 (si tratta della lettera
al p. Ludovico Maselli del 29 ottobre 1586, qui resa pubblica poco
dopo la scoperta). – Zeuli Ch., ed., Lettere del
manoscritto maceratese, Macerata, Centro studi ricciani, 1985. -
Ricci Matteo, Lettere dalla Cina 1584-1608 . La
descrizione stupita del mondo cinese e delle sue curiosità
nelle lettere dell’europeo più famoso della Cina,
introd. di J. Gernet, Ancona Transeuropa, 1999.
Altri
titoli e notizie di opere di Matteo Ricci:
Qiankun
tiyi (Spiegazioni essenziali di cielo e terra).
E’il
nome della raccolta non ricciana di opuscoli del Ricci, che contiene
alcuni suoi lavori noti e meno noti : Nozioni generali di
cosmografia e di geografia, Distanza e grandezza comparata tra il
globo terrestre e i pianeti dei nove cieli, Trattato dei quattro
elementi, Il disco solare è più grande del globo
terrestre… Contiene anche il Trattato delle figure
isoperimetriche di Li Zhizao. Nella seconda metà del sec.
XVIII, questa raccolta, insieme ad alcune altre opere del Ricci,
venne inserita tra le migliori 3461 produzioni letterarie cinesi.
Tianzhu
Hiaoyao Jielio (Dichiarazione della dottrina cristiana).
E’ un
sommario della dottrina cattolica in cinese. Ci è pervenuto
nelle prime cinque carte del manoscritto che contiene il Vocabolario
sinico-europeo. E’ stato pubblicato dal D’Elia nel
1935 (D’Elia P.M., Il domma cattolico integralmente
presentato da Matteo Ricci ai letterati della Cina, secondo un
documento cinese inedito di 350 anni fa, in “Civiltà
Cattolica”, II, (1935), p. 46.
Xizi
qiji (Strani esempi di scrittura occidentale).
Nessuna
traccia o nessuna chiara identificazione di di questo lavoro di cui
ci è pervenuto il titolo. Nella bibliografia curata da G.
Vacca in Tacchi Venturi (II, p. 546, n° 15) si
ipotizza che possa essere “piuttosto una trascrizione fonetica
in caratteri europei della scrittura cinese”.
[ Carteggio cinese]
Da ricordare,
infine, il copioso carteggio che il Ricci, nel 1608, riferisce di
tenere costantemente con “persone molto gravi, conosciute in
altro tempo et alcuni mai visti, che per la fama desideravano
trattare con noi”; incombenza faticosissima che non esita a
qualificare come “una delle maggiori occupationi che ho in
questa terra” (Lettere, p.473). Non ne sapremo mai
nulla, se è vero che bruciò il carteggio prima di
morire. Di altre carte private, come i quaderni di appunti e
riflessioni di meditazione spirituale, che erano ben noti ai
confratelli, e che il gesuita Giulio Aleni (1582-1649) riferisce,
nella biografia cinese di Ricci, di aver avuto tra le mani,
ugualmente non si è saputo mai nulla.
Opere
scientifiche di Xu Guangqi e Li Zhizao
in collaborazione con
Matteo Ricci o da questi ispirate
La
personalità, il bagaglio e l’apertura culturale,
l’opera di divulgazione scientifica dei due studiosi cinesi Xu
Guangqi (1562-1633) e Li Zhizao (1565-1630) sono da equiparare a
quelli del gesuita italiano. Essi frequentarono e stimarono il Ricci
fino a pubblicarne le opere di loro iniziativa, fino a diventare
cristiani. Sotto la guida e con la collaborazione di Ricci-Li Madou
(da loro più comunemente chiamato “signor Li” o
“maestro Li”), i due illustri letterati introdussero,
con i loro libri, i fondamenti della scienze europee in Cina, dando
un grande contributo ad un’operazione interculturale di cui
ancora non si finisce di valutare le conseguenze positive. Dopo la
morte del Ricci, continuarono la loro collaborazione con altri
missionari, ne chiesero il contributo alla riforma del calendario
cinese, li difesero durante la prima persecuzione del 1616.
Xu
Guanqi (“Paolo” o “Siu Paolo” per i gesuiti)
membro della prestigiosa Accademia Hanlin, scrisse, tra
l’altro, un trattato sui metodi di irrigazione in
collaborazione con il gesuita Diego de Pantoja, divenne Ministro dei
Riti e, poco prima di morire, precettore del principe ereditario.
Ricci lo riteneva “la magior colonna che in questi principij
hebbe questa christianità della Cina”. Li Zizhao
(“Leone”) rivestì diverse cariche pubbliche di
rilievo e fu vicedirettore dell’Ufficio del Calendario e, in
questa veste, ottenne che i missionari dessero il loro contributo
alla riforma del calendario cinese dopo la morte del Ricci.
Scrittore poliedrico e prolifico, è sua la pubblicazione di
Tianxue chuan (1629), una raccolta di scritti di carattere
scientifico, filosofico, morale, che includeva anche l’opera
di Ricci Tianzhu Shiyi (Vero significato del Signore del Cielo),
da lui limata nel lessico e nello stile. Da questa edizione di Li
Zizhao deriverà la gran parte delle riproposte cinesi del
Tianzhu Shiji fino ai nostri tempi.
Si dà di seguito un
elenco delle opere di collaborazione uscite dal ‘laboratorio’
ricciano o in esso ideate, alcune delle quali attribuite al solo
Ricci in certe frettolose bibliografie.
Xu Guangqi –
Matteo Ricci:
Jihe
yuanben (Libro elementare di geometria)
Pechino 1607.
E’ la
traduzione cinese dei primi sei libri di Euclide contenuti nel primo
volume dell’opera di Cristoforo Clavio Euclidis
elementorum libri XV (1574). La traduzione venne condotta
dal Ricci insieme a Xu Guangqi (1563-1633), alias Paolo,
mandarino e convertito che aveva una sconfinata ammirazione per il
gesuita e per le scienze dell’occidente. L’opera venne
stampata con le prefazioni di entrambi gli autori. Quella di Xu
Guangqi, che ricostruisce gli studi del suo maestro sotto la guida
del Clavio, era molto cara al Ricci perché molto dotta e
perché “la sua lettera è tenuta qui in molta
stima”. Ricci ne inviò due copie a Roma nel 1608, una
al Clavio, ed una al p. Costa. A questi ricorda: “L’anno
passato scrissi a V. R. di questo gentiluomo, che si era posto a
voltare con meco in ligua cinica gli elementi di Euclide, non tanto
per l’utile che con questa traduzione egli dava alla scienza
del suo regno, quanto per l’autorità che ne seguiva a
noi e per conseguente alla nostra santa legge” (Lettere,
p. 458); una delle tante dichiarazioni, questa, in linea con il suo
metodo missionario. Ne scrive anche al fratello Antonio Maria a
Macerata: “L’anno passato voltai in lingua cinese un
libro di Euclide e subito si stampò. E con questo si guadagnò
gran credito, essendo io molto pratico nei libri loro et il più
antico dei nostri padri nella Cina” (Lettere, p. 507),
dove l’uso sbrigativo della prima persona (“voltai”)
non significa la sola attribuzione a sé stesso della
traduzione. Altrove, infatti : “ [il dottor Paolo] finitte di
voltare meco in lettera cinica, molto elegantemente, i sei primi
libri di Euclide con le aggiunte del p. Clavio, e subito gli fece
stampare con molto belli caratteri” (Lettere, p. 468).
Il libro
elementare di geometria di Xu Guangqi - Ricci ebbe il grande
merito di introdurre la geometria euclidea in Cina, laddove il
pensiero matematico era solo o essenzialmente algebrico. Tra le
traduzioni legate al nome di Ricci è sicuramente la più
importante. E’ stato, in Cina, un testo fondamentale di
riferimento fino ai tempi moderni. Molti dei termini tecnici che vi
furono adottati per la prima volta sono restati stabilmente nella
lingua cinese. Ebbe grande influenza anche in Corea e Giappone. La
traduzione completa degli Elementi di Euclide verrà
ultimata in Cina solo nel 1857 da Li Shanlan e A. Wylie.
Celiang
Fayi (Teoria e metodo delle Misure)
1607.
Opera
composta dal Ricci nel 1607 con l’aiuto di Xu Guanqi e da
questi pubblicata nel 1617. E’ la traduzione del Libro III
della Geometria practica del Clavio (1604), la prima opera di
trigonometria occidentale moderna in Cina. Riguarda soprattutto la
costruzione del quadrante geometrico e le sue applicazioni. In
appendice la regola del tre tratta dall’ Epitome
arithmeticae sempre del Clavio (1585). Contiene molti rimandi
alla traduzione cinese di Euclide. Dopo la morte del Ricci, Xu vi
aggiunse sei capitoli di commento sotto il titolo di Celiang
yitong (Divergenze e convergenze tra le tecniche di rilevamento
cinese ed europee).
Gougu
yi (Spiegazioni del triangolo)
1607.
Contiene 15 problemi sui
triangoli rettangoli.
Sull’opera
di Xu Guangqi esistono studi piuttosto recenti in oriente: Wu
Chongmin, ed., Xu Guangqi (antologia degli scritti), Shanghai
1984; Hashimoto K., Hsu Kuang-ch’I and Astronomical Reform.
The Process of the Chinese Acceptance of Western Astromumy
1629-1635, Osaka 1988.
“Siu Paolo” viene ricordato nella Storia della
astronomia scritta nel 1813 da Giacomo Leopardi, massimo
filologo e poeta dell’ottocento italiano, che attinge a fonti
gesuitiche. A Leopardi (1798-1837), allora quindicenne e grande
diviratore di libri, sono noti anche i nomi degli astronomi gesuiti
che collaborarono alla rifirma del calendario cinese (Shall e
Verbiest). Significativamente, l’adolescente erudito di
Recanati, che pure cita il castigliano Pantoja, compagno di missione
e confratello del Ricci, nulla mostra di sapere sul ruolo di
pioniere avuto dall’illustre conterraneo di Macerata
nell’insegnamento ai Cinesi dei metodi europei di osservazione
astronomica. Sembra non conoscerne neppure il nome. Semplicemente
perché l’opera scientifica di Ricci, nell’ottocento,
era coperta dall’ombra più fitta e su di essa pesavano,
di riflesso, le settecentesche condanne dottrinali dell’
Inquisizione.
Li Zhizao
– Matteo Ricci:
Hungai Tongxian tushuo
(Astrolabio e sfera con figure e commento)
1607.
Opera scritta
e stampata da Li Zhizao (1565-1630), il cui soprannome era Li
Wocun, alias Leone, uno dei principali amici, collaboratori,
sostenitori del Ricci, nonché editore di alcune sue opere. Li
Zhizao scrisse quest’opera nella sua città natale,
Hangzhou, dopo aver lasciato Pechino e smesso temporaneamente,
perciò, di frequentare Ricci, per essere caduto in disgrazia
presso la corte di Pechino. Inviando una copia del libro del suo
discepolo a Roma al p. Costa nel marzo del 1608, Ricci commenta:
“Ella scorgerà l’abilità di questa gente e
quanto frutto si può ritrarre da loro con le nostre scienze”.
Ovvio il contributo remoto del Ricci sull’opera e la sua
influenza sull’autore: “imparò da noi molte cose
di matematica” –ricorda Ricci. E ancora: “va
stampando quello che udì”.
Li
Zhizao, qui, rielabora e traduce l’Astrolabio (1593) e
la Sfera (1570) del matematico Cristoforo Clavio (1537-1610).
Il Clavio (Christof Schlusse), gesuita tedesco, amico di Galileo e
Brahe, insegnante del Ricci al Collegio romano, fu con questi,
successivamente, in frequente corrispondenza con scambi di
informazioni scientifiche e di libri. Da qui l’origine
dell’opera di Li Zhizao, che aveva conosciuto il Ricci a
Pechino nel 1601 e, sotto la sua guida, studiava i testi del Clavio
facendoseli tradurre oralmente..
Tongwen
Swanzhi ( Indicatore aritmetico delle culture associate o
Trattato di aritmetica)
Pechino
1613.
Traduzione
della Epitome arithmeticae practicae del Clavio (1585).
L’opera viene elencata, qua e là, tra quelle postume
del gesuita maceratese in quanto da lui dettata allo studioso suo
discepolo. In realtà, il discepolo era un eminentissimo
mandarino, scrittore poliedrico, all’altezza del suo maestro.
Per altro anche se, qui come altrove, è piuttosto difficile
distinguere una paternità dall’altra, sembrerebbe che
per i concetti e le tecniche cinesi che compaiono nell’opera
(la risoluzione dei sistemi lineari, la trattazione di equazioni di
secondo grado senza uso di simboli algebrici) siano ovvi il
contributo e la competenza di Li Zizhao. Contributo attivo che Ricci
evidenzia: “tradusse col detto Padre tutta l’Aritmetica
pratica senza lasciare niente di quello che sta in essa Pratica
del Padre Clavio, anzi con aggiunta del modo di cavare le radici
quadrate, cubiche e cubicubiche usque ad infinitum”.
Huangrong
Jiaoyi ( Trattato delle figure isoperimetriche)
1614.
Altra opera
di traduzione in cinese di Li Zhizao composta nel 1609 e pubblicata
nel 1614. E’ tratta dal De figuris isoperimetris del
Clavio, presente nella edizione della Sfera del 1585, dalla
Geometria pratica sempre del Clavio, dal Della sfera e del
cilindro di Archimede ancora non tradotto in Cina. E’ il
primo esempi di introduzione in Cina di geometria nello spazio.
Su questa ed
altre traduzioni di Li Zhizao, sul suo amore per la matematica, per
il Cristianesimo, che predicava ancora prima di essere battezzato,
riferisce diffusamente il Ricci (Della entrata…
lib.IV, cap.XV).
Jingtian
gai (Trattato delle costellazioni)
Pechino,
incerta datazione.
Ancora una
traduzione in cinese di Li Zhizao del 1601, ma è incerta la
data di pubblicazione. Ricci, sempre al cap. XV, lib, IV, Della
entrata…, riferisce che il letterato e scrittore
cinese, oltre alla Sfera ed al Trattato delle figure
isoperimetre, tradusse “anco quello delle Costellationi
delle stelle, con che fece il globo celeste ed il terrestre
assiai belli”. Dato che le prime due opere ricordate sono del
Clavio, anche la terza, elencata in sequenza, sembrerebbe un’
opera dello stesso matematico tedesco, forse il quarto libro della
Sfera, che era dedicato allo studio del corso degli astri.
Non si può neppure escludere, però, la possibile
derivazione di Jingtian gai dall’atlante astronomico
allegato alla Sfera del mondo di Alessandro Piccolomini, che
Ricci dice di avere con sé in Cina (v. sopra la voce Il
Mappamondo nell’elenco delle opere ricciane). D’Elia
ed altri sulle sue orme dicono che Jingtian gai sia la
traduzione di “un poema di 420 versi settenari” di
contenuto astronomico composto dallo stesso Ricci; poema di cui non
si avrebbe traccia se non in alcune collezioni cinesi dei sec. XVIII
e XIX (i nomi delle collezioni sono riportati, in caratteri
ideografici, in Fonti Ricciane, II, pp.178, n.1).
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dall’Accademia delle Scienze Sociali nell’ambasciata
italiana a Beijing (v. articolo del prof. He Guanghu, membro del
comitato di preparazione al convegno (Il più grande
popolo della terra e la più grande religione della terra
hanno il dovere di normalizzare le loro relazioni. Il significato
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storia, il suo tempo), G. Andreotti (Matteo Ricci, un
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culturale e missionaria di Matteo Ricci in Cina), Li Jinshui
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cartografica di Matteo Ricci: il planisfero pubblicato a Pechino
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alle onoranze nazionali), Macerata, 11 maggio 1910; con, tra altri
brevi scritti, quelli di P. Tacchi Venturi (Il primo istitutore
del P. Matteo Ricci a Macerata) e T. Mancioli (La malattia
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alle onoranze al P. Matteo Ricci).
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(1610-1910). Atti e memorie del Convegno di geografi e orientalisti
tenuto in Macerata il 25, 26 e 27 settembre 1910,
Macerata, 1911; con i segg. interventi su
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Analogia fra l’opera del P. Matteo Ricci e quella delle
società antischiavistiche; Prinzivalli V., Prosecutori
dell’opera scientifica del P. Matteo Ricci e lo scisma
religioso in Cina; Mezzetti P., Strumenti astronomici
trovati dal P. Matteo Ricci a Pechino e Nanchino; Tacchi
Venturi P.; Il così detto confucionismo del P. Matteo
Ricci; Andrich G.L., Spunti giuriduci dai Commentarii del
P.M. Ricci; Brucker J., Notes sur une carte supposée
du P. Ricci; Tacchi venturi P., L’eredità del
P. Matteo Ricci in Cina; Cento F., I primi omaggi a Macerata
al P. Matteo Ricci; Foglietti R., La famiglia del P. Matteo
Ricci; Rossi G.G.M., Intorno all’opera e al carattere
del P. Matteo Ricci; Fischer A., Il P. Matteo Ricci genio
tutelare degli orologiai in Cina; Vitale G.O., La tomba del
P.Matteo Ricci; Ricci Ettore, Del valore geografico dei
Commentarii; [Ricci Ettore], Iconografia ricciana.
Ubaldi S.,
P. Matteo Ricci, in Gli uomini illustri della città
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Padre Matteo Ricci e il suo metodo di apostolato, in
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Padre
Matteo Ricci, in Macerata missionaria, 1938.
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del Mappamondo ricciano, 10 maggio 1938. -
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Matteo Ricci, in “Annuario dell’Università
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Gentili O.,
L’Apostolo della Cina: P. Matteo Ricci, Macerata 1971
(3° ed.).
-
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Padre Matteo Ricci (note biobibliografiche), Macerata 1970;
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Convegno
internazionale di Studi Ricciani. Centro Studi Ricciani,
Macerata – Pontificia Università |